dell'avvocato Vito Sola, patrocinante in Cassazione

phone icon06.35454548 / 06.35428127 (fax)
addrVia Ugo De Carolis, 31, 00136, Roma
divider

Contratti a termine stipulati dalla Spa Poste Italiane

separator

/ 0 Commenti /

La Corte di Cassazione interviene sulla nota questione della legittimità dei contratti a termine stipulati dalla Spa Poste Italiane. Il contratto oggetto del giudizio era stata stipulato per le cosiddette “esigenze eccezionali” ex art. 8 del contratto collettivo nazionale del 1994. Sia il Tribunale di Siena che la Corte di Appello di Firenze avevano dichiarato la nullità del contratto a tempo determinato stipulato dalla Spa Poste Italiane con la lavoratrice. Avverso la sentenza della Corte di Appello ha proposto ricorso in Cassazione la Spa Poste Italiane. La Corte di Cassazione ha respinto le censure mosse dalla Spa Poste Italiane.

Studio Legale Avv. Vito Sola
tel. 06.35.45.45.48 ~ fax 06.35.42.81.27
email: segreteria@studiolegalesola.it
Via Ugo De Carolis 31 ~ 00136 Roma

 

SENTENZA 7118/14

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FEDERICO ROSELLI                                             – Presidente –
Dott. ALESSANDRO DE RENZIS                                 – Consigliere –
Dott. VITTORIO NOBILE                                            – Rel. Consigliere –
Dott. ENRICA D’ANTONIO                                           – Consigliere –
Dott. FABRIZIO AMENDOLA                                       – Consigliere –
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Sul ricorso 28062-2008 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. 97103880585, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio dell’Avvocato P.R., che la rappresenta e difende giusta delega in atti
– ricorrente –
contro
C.C. elettivamente domiciliata in ROMA VIA UGO DE CAROLIS 31, presso lo studio dell’Avv. SOLA VITO, che la rappresenta e difende giusta delega in atti
– controricorrente –

Avverso la sentenza n. 1228/2007 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 16.11.27 R.G.N. 1380/2005;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/02/2014 del Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;
udito l’avvocato M. M. per delega P.R.;
udito l’Avvocato SOLA VITO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIANFRANCO SERVELLO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza 204 del 2004 il Giudice del lavoro del Tribunale di Siena, in accoglimento della domanda proposta da C.C. nei confronti della Poste Italiane, dichiarava la nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso tra le parti, per “esigenze eccezionali” ex art. 8 ccl 1994 come integrato dall’acc. 25.9.97 e succ., dal 23.10.1999 al 31.12.1999, con le consequenziali pronunce.
La società proponeva appello avverso detta sentenza, chiedendone la riforma con il rigetto della domanda.
La Corte d’Appello di Firenze, con sentenza depositata il 16.11.2007 rigettava l’appello.
Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con tre motivi.
La C. ha resistito con controricorso.
Infine la società ha deposita memoria ex art. 378 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la società censura (sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione) la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto la nullità del termine apposto al contratto de quo in quanto stipulato (per “esigenze eccezionali…”) oltre la scadenza ultima fissata dagli accordi collettivi attuativi dell’acc. naz. 25.9.1997 ed all’uopo sostiene la insussistenza di tale scadenza e la natura meramente ricognitiva dei detti accordi.
Il motivo è infondato in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al ccnl del 2001 ed al. D.lgs. n. 368 del 2001).
Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2.3.2006 n. 4588, è stato precisato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, ex art. 23 della legge 56 del 1987, del potere di definire nuova casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla legge 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4.8.2008 n. 21063, v. anche Cass. 20.4.2006 n. 9245, Cass. 7.3.2005 n. 4862, Cass. 26.7.2004 n. 13011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato” (v., fra le altre Cass. 4.8.2008 n. 21062, Cass. 23.8.2006 n. 18378).
In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v, fra le altre Cass. 23,8.2006 n. 18383, Cass. 14.4.2005 n. 7745, Cass. 14.2.2004 n. 2866).
In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui ribadito, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 2008; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962 n. 230” (v., fra le altre, Cass. 1.10.2007 n. 20608; Cass. 28.11.2008 n. 28450; Cass. 4.8.2008 n. 21062; Cass. 27.3.2008 n. 7979; Cass. 18378/2006 cit.).
In applicazione di tale principio va quindi respinto il detto primo motivo.
Con il secondo motivo la società lamenta che erroneamente la Corte di merito ha ritenuto generica l’eccezione relativa all’aliunde perceptum, senza peraltro esercitare i poteri istruttori d’ufficio al riguardo, e censura la sentenza per non aver tenuto conto che “l’aliunde perceptum … non può che essere genericamente dedotto dall’istante. Dovrebbe essere invece onere del lavoratore dimostrare di non essere stato occupato nel periodo in questione, per esempio a mezzo delle dichiarazioni dei redditi relative ai periodi successivi alla scadenza del contratto a termine eventualmente dichiarato illegittimo e di altra eventuale documentazione (libretti di lavoro, buste paga)”.
Il motivo, così riassunto, conclude poi con la formulazione del seguente quesito ex art. 366-bis c.p.c.:
“Dica la Corte se, nel caso di oggettiva difficoltà della parte ad acquisire precisa conoscenza degli elementi sui quali fondare la prova a supporto delle proprie domande ed eccezioni – e segnatamente per la prova dell’aliunde perceptum – il giudice debba valutare le richieste probatorie con minore rigore rispetto all’ordinario, ammettendole ogni volta che le stesse possano comunque raggiungere un risultato utile ai fini della certezza processuale”.
Se si tiene conto del principio secondo cui il quesito di diritto deve essere formulato in maniera specifica e deve essere pertinente rispetto alla fattispecie cui si riferisce la censura (cfr., ad es., Cass. S.U. 5 gennaio 2007 n. 36 e 5 febbraio 2008 n. 2658) è evidente che il quesito come sopra formulato dalla società appare in buona parte estraneo alle argomentazioni sviluppate nel motivo e comunque del tutto astratto, senza alcun riferimento all’errore di diritto pretesamente commesso dai giudici nel caso concreto esaminato, per cui deve ritenersi inesistente con conseguente inammissibilità del motivo ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c. (in tal senso v. fra le altre Cass. 10.1.2011 n. 325).
Del resto anche il motivo risulta del tutto generico e privo di autosufficienza e non coglie nel segno, in quanto la sentenza impugnata, sul punto, ha affermato che la società “si limita alla astratta enunciazione del principio, senza fornire alcuna indicazione concreta utile alla sua determinazione, ancorché sulla base di mezzi istruttori d’ufficio” e peraltro “sostiene essere onere del lavoratore dimostrare di non aver percepito emolumenti derivanti da rapporti di lavoro o da lavoro autonomo, in tal modo proponendo una evidente inversione dell’onere deduttivo” ed il ricorso non specifica come e in quali termini abbia allegato davanti ai giudici di merito un aliunde perceptum, in relazione al quale è pur sempre necessaria una rituale acquisizione della allegazione della prova.
Peraltro la ricorrente non specifica quali siano state in particolare le richieste disattese dai giudici di merito, mentre non va dimenticato che, comunque, i poteri istruttori d’ufficio “ – pur diretti alla ricerca della verità, in considerazione della particolare natura dei diritti controversi – non possono sopperire alle carenze probatorie delle parti, né tradursi in poteri d’indagine e di acquisizione del tipo di quelli propri del procedimento penale” (cfr. Cass. 8.8.2002 n. 12002, Cass. 21.5.2009 n. 11847, Cass. 22.7.2009 n. 17102, Cass. 15.3.2010 n. 6205).
Il detto motivo risulta pertanto inammissibile.
Con il terzo motivo poi, la ricorrente censura l’impugnata sentenza nella parte in cui ha respinto l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito, nonostante la mancanza di una qualsiasi manifestazione di interesse alla funzionalità di fatto del rapporto, per un apprezzabile lasso di tempo anteriore alla proposizione della domanda e la conseguente presunzione di estinzione del rapporto stesso, con onere, in capo al lavoratore, di provare le circostanza atte a contrastare tale presunzione.
Anche tali censure non meritano accoglimento.
Come questa Corte ha più volte affermato “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. Cass. 10.11.2008 n. 26935, Cass. 28.9.2007 n. 20390, Cass. 17.12.2004 n. 23554, nonché da ultimo Cass. 18.11.2010 n. 23319, Cass. 11.3.2011 n. 5887, Cass. 4.8.2011 n. 16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso” (v. da ultimo Cass. 15.11.2010 n. 23057, Cass. 11.3.2011 n. 5887), mentre “grava sul datore di lavoro”, che eccepisca tale risoluzione, “l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di voler porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 2.12.2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass. 1.2.2010 n. 2279, Cass. 15.11.2010 n. 23057, Cass. 11.32011 n. 5887).
Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli art. 1372 e 1321 c.c., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanza di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e neppure la mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto, Al riguardo infatti, non può condividersi il diverso indirizzo che, valorizzando esclusivamente il “piano oggettivo” nel quadro di una presupposta valutazione socilae “tipica” (v. Cass. 6.7.2007 n. 15264 e da ultimo Cass. 5.6.2013 n. 14209), prescinde del tutto dal presupposto che la risoluzione per mutuo consenso tacito costituisce pur sempre una manifestazione negoziale, anche se tacita.
Orbene nella fattispecie la Corte di merito, attenendosi a tali principi, ha affermato che “è assolutamente notorio che “intorno” al mondo dei contratti a termine delle Poste ruota una varia umanità di lavoratori assolutamente precari che continuano ad alternare periodi di lavoro presso l’ente ad altri rapporti a termine presso terzi o a periodi di non lavoro, ma sempre nella speranza di poter coprire un certo arco temporale con una forma di impiego” … “come dimostra la sostanziale rotazione nell’attribuzione di diversi contratti in un arco considerevole di tempo”, con conseguente evidente “equivocità delle condotte” per cui “il solo silenzio non svolge alcun carattere significativo, specie se raffrontato con il legittimo timore che una qualsiasi forma di reazione possa portare ad escludere il lavoratore medesimo da ipotesi di futuri rapporti di lavoro”.
Tale accertamento di fatto, conforme ai principi sopra richiamati, risulta altresì congruamente motivato e resiste alla censura della ricorrente.
Così respinti il primo e il terzo motivo e, come sopra dichiarato inammissibile il secondo, riguardante le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius supervenienes, rappresentato dall’art. 32, commi 5°, 6° e 7° della legge 4 novembre 2010 n. 183.
Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27.2.2004 n. 4070).
In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto della disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4.1.2011 n. 80 cit.).
Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.
Il ricorso va pertanto rigettato e la ricorrente, in ragione della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare alla C. le spese, liquidate in euro 100,00 per esborsi e euro 3.500,00 per compensi, oltre accessori di legge.
Roma 6 febbraio 2014

IL CONSIGLIERE ESTENSORE
Vittorio Nobile

IL PRESIDENTE
Federico Roselli

DEPOSITATO IN CANCELLERIA
ROMA 26.3.2014

separator