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Illegittimità del licenziamento

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L’illegittimità del licenziamento disciplinare deve essere valutata sotto il duplice aspetto della fondatezza delle contestazioni mosse dal lavoratore e della proporzionalità tra la gravità delle contestazioni accertate e la sanzione espulsiva adottata ex art. 2119 c.c. Partendo da tali principi di valutazione deve essere accolto il ricorso di un lavoratore ingiustamente licenziato a seguito di un procedimento penale, dopo che lo stesso ha agito in completa buona fede e non vi è presenza di dolo. Deve essere rigettata, altresì, l’opposizione proposta ai sensi del “rito Fornero” da parte del datore di lavoro (Poste Italiane SpA) con condanna per lo stesso al pagamento delle spese di giudizio, delle retribuzioni che il lavoratore avrebbe dovuto percepire fino all’effettiva reintegrazione nonché al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

 

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ORDINANZA N. 2964/2016 e SENTENZA N. 55/2017

(Rito Fornero)

 

TRIBUNALE ORDINARIO DI GROSSETO

Sezione Lavoro

O R D I N A N Z A

 Nella causa N. 262     /    1016   R.G., vertente

TRA

M.F.

CONTRO

POSTE ITALIANE SPA

*****

 in persona del Giudice, dott. Giuseppe GROSSO;

– esaminati gli atti e a scioglimento della riserva assunta all’odierna udienza;

OSSERVA

1. Con ricorso ex art. 414 cpc depositato il 29.3.2016 M. F. – premesso di aver lavorato alle dipendenza della soc. POSTE ITALIANE SPA con mansioni di portalettere – ha impugnato il licenziamento irrogatole con provvedimento datato 8.10.2015 sull’assunto che ella avrebbe attestato di aver consegnato un plico indirizzato a F. M. laddove e lo stesso era stato consegnato invece a M. R.

La ricorrente ha quindi invocato, previo accertamento della illegittimità del licenziamento comminato per assenza di giusta causa, il riconoscimento delle tutele di cui all’art. 18 l. n. 300/1970. Nel fornire quindi precisazioni utili alla ricostruzione dei fatti, ha contestato, nello specifico, la violazione del principio di proporzionalità in relazione alla sanzione espulsiva, non essendo la condotta contestata riconducibile alla fattispecie contemplate dall’art. 54, comma VI lett. c) e K) e art. 80 lett. e) del CCNL richiamato nella lettera di licenziamento.

2. Si costituiva la società datrice di lavoro, la quale assumendo, in definitiva, la tempestività della contestazione e, nel merito, la legittimità e proporzionalità del provvedimento espulsivo – essendosi la ricorrente resa responsabile di gravi condotte nell’adempimento delle sue mansioni, idonee a recidere il vincolo fiduciario e tali da meritare la massima sanzione disciplinare – concludeva per l’integrale rigetto del ricorso.

3. All’udienza del 4.10.2016 veniva disposto il mutamento del rito nelle forme di cui all’art. 1 co. 48 e ss., L. 28 giugno 2012 n. 92, stante la pacifica sussistenza del requisito dimensionale in capo all’azienda. Poiché si registrava la mancata contestazione da parte datoriale delle circostanze addotte con i capitoli di prova relativi all’unico teste indicato da parte ricorrente – ovvero il destinatario del plico in contestazione, F. M. – la causa veniva rinviata all’odierna udienza per la discussione.

***

4. Tanto premesso, il Tribunale ritiene che il ricorso sia fondato.

5. Prendendo le mosse dalle contestazioni inviate alla lavoratrice, richiamate nel provvedimento espulsivo, si evidenzia come le stesse debbano ritenersi senz’altro di minore gravità rispetto a quanto contestato nel provvedimento disciplinare . E’ indiscutibile che la F. abbia agito in piena buona fede. Infatti:

            – ella in data 12.2.2013 si è recata in XXX presso l’abitazione del F. allo scopo di recapitargli un atto;

            – la porta le venne aperta dalla moglie M., alla quale chiedeva di parlare con il marito, che pure, la stessa F. intravedeva in casa in pigiama;

            – la moglie riferiva alla M. che il marito era malato e in attesa della visita fiscale, chiedendo alla lavoratrice ove il marito dovesse apporre la firma;

            – la M., presi il registro e la cartolina, si allontanava entrando nella stanza dalla quale si era affacciato il marito, così uscendo per qualche istante dalla visuale della ricorrente; immediatamente dopo faceva ritorno con la cartolina e il registro firmati; verificato che la firma non era leggibile, la F. scriveva a stampatello, sopra la sottoscrizione, il nome del destinatario.

            Così ricostruiti i fatti non vi è chi non veda come si sia trattato di un’inescusabile leggerezza da parte della lavoratrice, meritevole certo di sanzione, ma lungi dalla gravità prospettata. Non sono di poco conto le considerazioni, pure non contestate da parte convenuta, relative non solo alla presenza in casa dei F., malato e non vestito, visto personalmente dalla F., ma anche la circostanza che questa non conoscesse nessuna delle parti, dunque non avesse agito allo scopo di favorire una o danneggiare l’altra. Semplicemente ha ritenuto di fare una cortesia, stante la peculiarità della situazione consentendo alla moglie di recarsi nella camera del marito (che ella aveva visto) per farlo firmare dato che non stava bene. Ciò che è successo evidentemente è che, evidentemente è che, per ragioni che non interessano in questa sede, il F. o la moglie, o entrambi d’accordo, hanno deciso di disconoscere la sottoscrizione (non è inutile ricordare che si trattava di un atto giudiziario; né pare inutile ricordare che, a quel che risulta, all’epoca dei fatti vi fossero forti dissidi personali tra moglie e marito; circostanza, questa, tuttavia pacificamente ignorata alla lavoratrice). Né rileva in questa sede se il F. avesse indicato o no alla moglie di apporre una sigla al proprio posto. Quel che è certo, e non contestato da parte datoriale, è che la F. fosse pienamente convinta che ad apporre la sigla fosse stato il destinatario dell’atto, avendo in effetti ogni ragione per esserlo.

6. Nel merito, giova preliminarmente ricordare che la questione relativa alla pretesa illegittimità di un licenziamento disciplinare – quale deve senz’altro intendersi quello per cui è causa – deve essere affrontata sotto il duplice aspetto della fondatezza delle contestazioni mosse al lavoratore e della proporzionalità tra la gravità delle contestazioni disciplinari accertate (che devono rivestire il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento della fiducia che deve continuamente sussistere tra le parti) e la sanzione espulsiva adottata ex art. 2119 c.c..

            Alla luce infatti del consolidato insegnamento della S.C. di Cassazione “per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario e la cui prova incombe sul datore di lavoro, occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali atti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare; la valutazione della gravità dell’infrazione e della sua idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato” (ex multis, Cass. Civ., Sez. lavoro , 03/01/2011, n. 35; nello stesso senso, Sez. Lav., 19/09/2012, n. 15564).

            Ebbene, facendo applicazione di tali principi al caso che ci occupa, deve rilevarsi che, quanto alla storicità degli eventi, il fatto è comprovato, e nemmeno contestato, ovvero che la ricorrente effettivamente non ha visto materialmente il F. apporre la firma per la ricezione dell’atto. Non v’è dubbio che una tale condotta integri un inadempimento al dovere di correttezza gravante sul lavoratore nell’esecuzione della prestazione.

            Tuttavia le ricordate circostanza nelle quali si è inserita la condotta inadempiente, neppure esse sostanzialmente contraddette da parte datoriale, sono senz’altro rilevanti ai fini della verifica della gravità dell’inadempimento onde accertare l’idoneità della condotta a recidere il vincolo fiduciario e, conseguentemente, della proporzionalità della sanzione comminata alla violazione commessa.

7. Tanto basta, a parere di questo giudice, a escludere che la violazione commessa sia avvenuta allo scopo di recare un danno (o un vantaggio) né ad uno tra il F. e la moglie (ai quali certamente è da ricondurre la sigla apposta) né tantomeno all’azienda per la quale la ricorrente lavora.

            Deve allora concludersi che non sussistevano e non sussistono i presupposti per ritenere ineluttabilmente minato il vincolo di fiducia che deve necessariamente caratterizzare il rapporto di lavoro, in modo tale rendere impossibile la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto, facendo legittimamente ritenere al datore di lavoro che la continuazione dello stesso potesse in concreto risolversi in un pregiudizio per gli scopi aziendali.

8. Nondimeno, tenuto conto del principio di proporzionalità della sanzione in rapporto alla gravità dell’infrazione (art. 2106 c.c.), deve anche ritenersi che l’inadempienza del lavoratore, certamente disciplinarmente rilevante, avrebbe legittimamente dovuto esser punita con una sanzione diversa anche dal licenziamento per giustificato motivo soggettivo il quale postula, comunque, “un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali” inerenti il rapporto di lavoro (art. 3 l. 604/66), fattispecie qui non ravvisabile alla luce delle circostanze oggettive e soggettive della condotta come sopra evidenziate.

            D’altronde, deve anche osservarsi, che anche alla stregua del principio di gradualità della sanzione, la ricorrente, alle dipendenze di Poste Italiane da circa dieci anni, mai aveva ricevuto qualsivoglia rilievo disciplinare.

9. In conclusione, quindi, in assenza di elementi in merito atti a qualificare in maniera più pregnante la condotta del lavoratore ed in assenza altresì della prova in eventuali negligenze, anche pregresse, addebitabili allo stesso, deve ritenersi che le circostanze accertate nel corso del giudizio non possano integrare finanche il giustificato motivo soggettivo di licenziamento, dal momento che l’episodicità e le circostanze tutte della condotta impongono di escludere tanto la gravità dell’omissione quanto la proporzionalità tra l’infrazione e la sensazione espulsiva adottata ex art. 2119 c.c..

10. Il licenziamento comminato al ricorrente in data 8.10.2015 deve essere pertanto dichiarato illegittimo in quanto adottato in presenza di un comportamento sì negligente ma non di tale gravità da costituire giusta causa di recesso ed, anzi, efficacemente sanzionabile con una misura disciplinare più gradata e meno affittiva del licenziamento. In conclusione la condotta posta in essere dalla dipendente, pur censurabile e meritevole di sanzione disciplinare, non appare così grave da giustificare l’estrema sanzione del licenziamento senza preavviso e per giusta causa adottata dal datore di lavoro. Né il giudice può dirsi vincolato dal richiamo di parte ricorrente alle previsione del CCNL, posto che questi deve sempre verificare, stante l’inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, non solo se la previsione sia conforme alla nozione di giusta causa di cui all’art. 2119 cc, ma anche se il comportamento addebitato al lavoratore sia connotato da tale gravità, alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, da giustificare la risoluzione in tronco per impossibilità di prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto di lavoro. Lo stesso art. 30, comma 3°, primo periodo, della legge n. 183/2010, nello stabilire che il giudice, nel valutare le motivazioni del licenziamento, debba tener conto delle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo presenti nei contratti collettivi, non incide in alcun modo nel poter di valutazione sopra indicato. Ed invero, “…la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, dall’altro , la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare; quale evento “che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma…”(Cfr. Sez. L, Sentenza n. 6498 del 26/04/2012, Rv. 622158).

1. Nello specifico il CCNL richiamato alla lett. c) dell’art. 54 punto VI prevede che la condotta, posta “in violazione dolosa di leggi o regolamenti o dei doveri d’ufficio”, possa arrecare o abbia arrecato forte pregiudizio alla società o a terzi. Dato questo indimostrato e da ritenersi insussistente. Né per le ragioni prima dedotte, può ritenersi integrato il presupposto di cui alla successiva lett. K (ovvero fatti o atti dolosi di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro); né tantomeno ricorre – sempre per le medesime ragioni prima richiamate – il caso della previsione di cui all’art. 80 lett. e) che fa riferimento alla nozione generale di cui all’art. 2119 c.c.

12. Alla luce delle considerazioni che precedono, ritenuto il provvedimento espulsivo illegittimo per difetto del giustificato motivo o della giusta causa, deve essere riconosciuta la tutela di cui all’art 18, co. 5. L. 20.5.1970 n. 300 e dunque il diritto del lavoratore alla reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno nella misura stabilita dal predetto art. 18. Deve ordinarsi pertanto a Poste Italiane Spa di reintegrare la ricorrente nel posto di lavoro in precedenza ricoperto, con condanna della società al pagamento, in favore della ricorrente, delle retribuzioni, calcolate sulla base della retribuzione globale di fatto, desumibile dall’ultima busta paga ricevuta, che la stessa avrebbe percepito dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione nel posto di lavoro, oltre ad interessi al tasso legale sui singoli ratei via via rivalutati (secondo gli indici I.S.T.A.T. dei prezzi al consumo per le famiglie di impiegati ed operai) dalla data delle rispettive scadenze al saldo.

            La società convenuta deve essere altresì condannata al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell’effettiva reintegrazione.

  1.      Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo in basa ai parametri per i compensi per l’attività forense di cui al D.M. n. 55/2014 (applicabile ratione temporis alla presente liquidazione giusta quanto previsto all’art. 22 del citato D.M.), tenuto conto della natura sommaria del procedimento cui si ritiene assimilabile, ai fini delle spese, la natura cautelare.

P . Q . M .

Sulla domanda proposta da M. F. con ricorso depositato in data 29.3.2016, disattesa ogni diversa istanza o eccezione, così provvede:

            1) accertata l’invalidità del licenziamento intimato a M. F. con lettera del giorno 8 ottobre 2015, ordina a Poste Italiane Spa di reintegrare la ricorrente nel posto di lavoro in precedenza ricoperto;

            2) condanna Poste Italiane Spa al pagamento, in favore di M. F., delle retribuzioni che la stessa avrebbe percepito dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione nel posto di lavoro, oltre ad interessi al tasso legale sui singoli ratei via via rivalutati (secondo gli indici I.S.T.A.T. dei prezzi al consumo per le famiglie di impiegati ed operai) dalla data delle rispettive scadenze al saldo;

            3) condanna Poste Italiane Spa al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell’effettiva reintegrazione;

            4) condanna Poste Italiane Spa alla rifusione, in favore di M. F., delle spese di lite che liquida in complessivi € 3.500 per compensi di avvocato, oltre IVA e CPA come per legge.

            Grosseto, 21 dicembre 2016

                                                                             IL GIUDICE

                                                                        dott. Giuseppe Grosso

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI GROSSETO

Sezione Lavoro

***

 in persona del Giudice, dott. Giuseppe Grosso

all’udienza del 1° marzo 2017, all’esito della camera di consiglio, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

ex art. 429, 1° comma c.p.c., modificato dall’art. 53, comma 2 d.l. n. 112/2008, conv. In legge n. 133/2008 nella causa civile iscritta al n. 49 del Ruolo Generale Affari Lavoro dell’anno 2017, vertente

TRA

POSTE ITALIANE S.p.A., in persona del dott.                   , responsabile della Funzione Risorse Umane, con sede  in                                   , rappresentata e difesa dall’Avv.                             , ed elettivamente domiciliata in Grosseto presso lo studio dell’Avv.                         , giusta delega a margine della comparsa di costituzione nella prima fase.

RICORRENTE

E

F.M., nata a        il              ivi residente, rappresentata e difesa dagli Avv.ti Vito Sola del Foro di Roma e Lucio Bernardelli del Foro di Grosseto ed elettivamente domiciliata presso lo studio del secondo in Santa fiora (GR) Piazza Garibaldi n. 17, giusta delega in calce alla comparsa di costituzione e risposta.

CONVENUTA

OGGETTO: impugnazione licenziamento (rito Fornero fase di opposizione)

Conclusioni delle parti:

Ricorrente: “Voglia il Giudice del Lavoro del Tribunale adito:

– accertato e dichiarato che il licenziamento oggetto del giudizio è stato irrogato da Poste Italiane spa legittimamente e correttamente, stante la sussistenza dei fatti e la mancata contestazione delle condotte contestate al dipendente,

– procedere alla integrale riforma della ordinanza emessa in data 21/12/16, n. cronol. 2964/2016 dal Giudice del Lavoro dell’intestato Tribunale Dott. Giuseppe Grosso in accoglimento del ricorso promosso dalla sig. F. M. (R.G. 262/2016, in quanto ingiusta e non corretta per tutti i motivi esposti in premessa e, conseguentemente, dichiarare legittimo ed efficace il licenziamento intimato da Poste Italiane spa alla sig.ra F. M. in data 8/io/15, con conseguente rigetto ed ogni conseguenziale pretesa e domanda della stessa F., in quanto infondata in fatto ed in diretta, con vittoria di spese e competenze di entrambe le fasi del presente procedimento e condanna del ricorrente alla restituzione di quanto indebitamente già corrisposto da Poste Italiane spa in forza della ordinanza della prima fase, anche per quanto riguarda gli oneri previdenziali e assicurativi maggiorati di interessi versati agli organi competenti”.

Convenuta: “Piaccia all’Ecc.mo Tribunale di Grosseto, contrariis reiectis così provvedere:

– in via preliminare si eccepisce l’inammissibilità dell’opposizione proposta da Poste Italiane Spa per i motivi meglio dedotti in premessa al punto 1);

– in via principale nel merito rigettare l’opposizione spiegata da Poste Italiane S.p.a. in quanto infondata in fatto ed in diritto;

– per l’effetto, confermare integralmente in ogni suo punto l’ordinanza n. 2964/2016, emessa dal Tribunale di Grosseto, sezione lavoro, nella causa R.G. 262/2016, depositata il 21 dicembre 2016.

Con vittoria di spese e compenso del presente giudizio”.

 FATTO E DIRITTO

  1. Con ricorso depositato il 19.1.2017. il ricorrente in epigrafe indicato ha proposto opposizione avverso l’ordinanza di accoglimento n. cron. 2964/2016 del 21.12.2016 – emessa dall’intestato Tribunale su ricorso ex art. 1, comma 48 e ss., l. 28 giugno 2012, n. 92 di M. F. – lamentando l’erronea valutazione dei fatti di causa in riferimento, principalmente, alla gravità delle mancanze ascrivibili alla dipendente. Ha quindi rassegnato le conclusioni in epigrafe trascritte.
  2. Si è costituita la convenuta, eccependo preliminarmente l’inammissibilità dell’opposizione in quanto atto endoprocessuale in carenza di deposito telematico dell’odierno ricorso; nel merito, richiamate le difese già spiegate nella fase sommaria del procedimento, instava per il rigetto dell’opposizione.
  3. All’odierna udienza, la causa, senza necessità di ulteriore istruzione ritenuta superflua, è stata discussa e decisa mediante la presente sentenza di cui è stata data lettura.

***

  1. L’opposizione è infondata.
  2. Preliminarmente va tuttavia rigettata l’eccezione di inammissibilità della domanda. La fase (eventuale) a cognizione piena che caratterizza il rito Fornero non può dirsi endoprocessuale rispetto a quella sommaria chiusasi con (l’opposta) ordinanza. Trattasi infatti di procedimento autonomo che si avvia con ricorso e come tale non assimilabile a quello che si apre a seguito di reclamo su provvedimento cautelare. Peraltro, anche rispetto al detto reclamo, le posizioni della giurisprudenza di merito non sono affatto univoche in punto di effetti del suo deposito in forma cartacea piuttosto che telematica (si vedano le decisioni, ad esempio, del Tribunale di ‘Aquila, ord. 14.7.2016, e Trib. Vasto, ord. 15.4.2016, che non condividono quelle di altri Tribunali i quali hanno in precedenza affrontato la medesima questione – es. Tribunale di Asti, 23.3.2015, e Tribunale di Ancona, 28.5.2015 – e che, pur ammettendo l’inderogabilità dell’obbligo di deposito telematico del reclamo – in forza della L. 24.12.2012, n. 228, c.d. legge di stabilità 2013 che ha previsto l’obbligo di deposito telematico degli atti processuali delle parti precedentemente costituite a decorrere dal 30.6.2014 -, riconoscevano però la possibilità della sanatoria della nullità per vizio di forma, in base al principio del c.d. raggiungimento dello scopo).
  3. Nel merito, l’opposizione è basata su un mero diverso apprezzamento delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto posti a fondamento nella decisione. Ancor più precisamente, punto focale su cui la ricorrente fonda le proprie doglianze risiede, sostanzialmente e pressoché unicamente, nella considerazione relativa agli effetti pregiudizievoli per Poste che la vicenda ha avuto data la risonanza della vicenda conclusasi con sentenza penale di condanna della F. predetta per il reato di falso in atto pubblico. L’opposizione si dilunga su tale aspetto anche con riferimento a quelli che sono gli elementi essenziali della fattispecie penale contestata, tanto in punto materiale quanto avuto riguardo al necessario (e sufficiente) elemento psicologico in capo all’agente.

Trascura tuttavia di considerare, parte ricorrente, che il giudizio cui è chiamato il giudice del lavoro è affatto differente rispetto a quello demandato al giudice penale. E che le considerazioni svolte nella motivazione dell’ordinanza riguardo ai profili che dovevano (e devono) essere necessariamente presi in considerazione al fine di valutare la gravità della condotta (sebbene essa fosse, come riconosciuto nell’ordinanza, pur passibile di giusta reazione datoriale), rimangono apprezzabili in questa sede, anzi neppure sono stati fatti oggetto di puntuale contestazione da parte della ricorrente.

            6.1 Vale allora la pena richiamare le considerazioni già espresse da questo giudice nell’ordinanza impugnata, ritenute – si ripete – tuttora valide, che si riportano a seguire con differente carattere di stampa per migliore orientamento e comprensione.

            […] Prendendo le mosse dalle contestazioni inviate alla lavoratrice, richiamate nel provvedimento espulsivo, si evidenzia come le stesse debbono ritenersi senz’altro di minore gravità rispetto a quanto contestato nel provvedimento disciplinare. E’ indiscutibile che la F. abbia agito in piena buona fede, dunque in totale carenza di dolo invocato da parte convenuta. Infatti:

            – ella in data 12.2.2013 si è recata in XXX presso l’abitazione del F. allo scopo di recapitargli un atto;

            – la porta le venne aperta dalla moglie M., alla quale chiedeva di parlare con il marito, che pure, la stessa F. intravedeva in casa in pigiama;

            – la moglie riferiva alla M.  che il marito era malato e in attesa della visita fiscale, chiedendo alla lavoratrice ove il marito dovesse apporre la firma;

            – la M., presi il registro e la cartolina, si allontanava entrando nella stanza dalla quale si era affacciato il marito, così uscendo per qualche istante dalla visuale della ricorrente; immediatamente dopo faceva ritorno con la cartolina e il registro firmati; verificato che la firma non era leggibile, la F. scriveva a stampatello, sopra la sottoscrizione, il nome del destinatario.

            Così ricostruiti i fatti non vi è chi non veda come si sia trattato di un’inescusabile leggerezza da parte della lavoratrice, meritevole certo di sanzione, ma lungi dalla gravità prospettata. Non sono di poco conto le considerazioni, pure non contestate da parte convenuta, relative non solo alla presenza in casa dei F, malato e non vestito, visto personalmente dalla F., ma anche la circostanza che questa non conoscesse nessuna delle parti, dunque non avesse agito allo scopo di favorire una o danneggiare l’altra. Semplicemente ha ritenuto di fare una cortesia, stante la peculiarità della situazione consentendo alla moglie di recarsi nella camera del marito (che ella aveva visto) per farlo firmare dato che non stava bene. Ciò che è successo evidentemente è che, evidentemente è che, per ragioni che non interessano in questa sede, il F. o la moglie, o entrambi d’accordo, hanno deciso di disconoscere la sottoscrizione (non è inutile ricordare che si trattava di un atto giudiziario; né pare inutile ricordare che, a quel che risulta, all’epoca dei fatti vi fossero forti dissidi personali tra moglie e marito; circostanza, questa, tuttavia pacificamente ignorata alla lavoratrice). Né rileva in questa sede se il F. avesse indicato o no alla moglie di apporre una sigla al proprio posto. Quel che è certo, e non contestato da parte datoriale, è che la F. fosse pienamente convinta che ad apporre la sigla fosse stato il destinatario dell’atto, avendo in effetti ogni ragione per esserlo.

  1. Nel merito, giova preliminarmente ricordare che la questione relativa alla pretesa illegittimità di un licenziamento disciplinare – quale deve senz’altro intendersi quello per cui è causa – deve essere affrontata sotto il duplice aspetto della fondatezza delle contestazioni mosse al lavoratore e della proporzionalità tra la gravità delle contestazioni disciplinari accertate (che devono rivestire il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento della fiducia che deve continuamente sussistere tra le parti) e la sanzione espulsiva adottata ex art. 2119 c.c..

            Alla luce infatti del consolidato insegnamento della S.C. di Cassazione “per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario e la cui prova incombe sul datore di lavoro, occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali atti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare; la valutazione della gravità dell’infrazione e della sua idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato” (ex multis, Cass. Civ., Sez. lavoro , 03/01/2011, n. 35; nello stesso senso, Sez. Lav., 19/09/2012, n. 15564).

            Ebbene, facendo applicazione di tali principi al caso che ci occupa, deve rilevarsi che, quanto alla storicità degli eventi, il fatto è comprovato, e nemmeno contestato, ovvero che la ricorrente effettivamente non ha visto materialmente il F. apporre la firma per la ricezione dell’atto. Non v’è dubbio che una tale condotta integri un inadempimento al dovere di correttezza gravante sul lavoratore nell’esecuzione della prestazione.

            Tuttavia le ricordate circostanza nelle quali si è inserita la condotta inadempiente, neppure esse sostanzialmente contraddette da parte datoriale, sono senz’altro rilevanti ai fini della verifica della gravità dell’inadempimento onde accertare l’idoneità della condotta a recidere il vincolo fiduciario e, conseguentemente, della proporzionalità della sanzione comminata alla violazione commessa.

  1. Tanto basta, a parere di questo giudice, a escludere che la violazione commessa sia avvenuta allo scopo di recare un danno (o un vantaggio) né ad uno tra il F. e la moglie (ai quali certamente è da ricondurre la sigla apposta) né tantomeno all’azienda per la quale la ricorrente lavora.

            Deve allora concludersi che non sussistevano e non sussistono i presupposti per ritenere ineluttabilmente minato il vincolo di fiducia che deve necessariamente caratterizzare il rapporto di lavoro, in modo tale rendere impossibile la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto, facendo legittimamente ritenere al datore di lavoro che la continuazione dello stesso potesse in concreto risolversi in un pregiudizio per gli scopi aziendali.

  1. Nondimeno, tenuto conto del principio di proporzionalità della sanzione in rapporto alla gravità dell’infrazione (art. 2106 c.c.), deve anche ritenersi che l’inadempienza del lavoratore, certamente disciplinarmente rilevante, avrebbe legittimamente dovuto esser punita con una sanzione diversa anche dal licenziamento per giustificato motivo soggettivo il quale postula, comunque, “un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali” inerenti il rapporto di lavoro (art. 3 l. 604/66), fattispecie qui non ravvisabile alla luce delle circostanze oggettive e soggettive della condotta come sopra evidenziate.

            D’altronde, deve anche osservarsi, che anche alla stregua del principio di gradualità della sanzione, la ricorrente, alle dipendenze di Poste Italiane da circa dieci anni, mai aveva ricevuto qualsivoglia rilievo disciplinare.

  1. In conclusione, quindi, in assenza di elementi in merito atti a qualificare in maniera più pregnante la condotta del lavoratore ed in assenza altresì della prova in eventuali negligenze, anche pregresse, addebitabili allo stesso, deve ritenersi che le circostanze accertate nel corso del giudizio non possano integrare finanche il giustificato motivo soggettivo di licenziamento, dal momento che l’episodicità e le circostanze tutte della condotta impongono di escludere tanto la gravità dell’omissione quanto la proporzionalità tra l’infrazione e la sensazione espulsiva adottata ex art. 2119 c.c..
  2. Il licenziamento comminato al ricorrente in data 8.10.2015 deve essere pertanto dichiarato illegittimo in quanto adottato in presenza di un comportamento sì negligente ma non di tale gravità da costituire giusta causa di recesso ed, anzi, efficacemente sanzionabile con una misura disciplinare più gradata e meno affittiva del licenziamento. In conclusione la condotta posta in essere dalla dipendente, pur censurabile e meritevole di sanzione disciplinare, non appare così grave da giustificare l’estrema sanzione del licenziamento senza preavviso e per giusta causa adottata dal datore di lavoro. Né il giudice può dirsi vincolato dal richiamo di parte ricorrente alle previsione del CCNL, posto che questi deve sempre verificare, stante l’inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, non solo se la previsione sia conforme alla nozione di giusta causa di cui all’art. 2119 cc, ma anche se il comportamento addebitato al lavoratore sia connotato da tale gravità, alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, da giustificare la risoluzione in tronco per impossibilità di prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto di lavoro. Lo stesso art. 30, comma 3°, primo periodo, della legge n. 183/2010, nello stabilire che il giudice, nel valutare le motivazioni del licenziamento, debba tener conto delle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo presenti nei contratti collettivi, non incide in alcun modo nel poter di valutazione sopra indicato. Ed invero, “…la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, dall’altro , la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare; quale evento “che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma…”(Cfr. Sez. L, Sentenza n. 6498 del 26/04/2012, Rv. 622158).
  3. Nello specifico il CCNL richiamato alla lett. c) dell’art. 54 punto VI prevede che la condotta, posta “in violazione dolosa di leggi o regolamenti o dei doveri d’ufficio”, possa arrecare o abbia arrecato forte pregiudizio alla società o a terzi. Dato questo indimostrato e da ritenersi insussistente. Né per le ragioni prima dedotte, può ritenersi integrato il presupposto di cui alla successiva lett. K (ovvero fatti o atti dolosi di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro); né tantomeno ricorre – sempre per le medesime ragioni prima richiamate – il caso della previsione di cui all’art. 80 lett. e) che fa riferimento alla nozione generale di cui all’art. 2119 c.c.

            […]

  1. Non può allora, ancora una volta, non evidenziarsi come i suesposti dati fattuali – sui quali questo Tribunale aveva fondato le proprie argomentazioni nella fase sommaria sul punto relativo al necessario ridimensionamento della gravità della condotta della F. – siano pacifici in quanto non oggetto, neppure in questa sede, di alcuna contestazione da parte datoriale.
  2. Nessun apprezzabile rilievo può avere, in senso contrario, la mera circostanza – introdotta con l’odierno ricorso e non contestata alla diretta interessata F. all’epoca del suo licenziamento – che la lavoratrice sia stata sottoposta a precedente rilievo disciplinare nel corso del 2009. Invero, come chiarito all’odierna udienza e come risulta dalla stessa documentazione prodotta da Poste – all. 12 del 28.7.2009, nonché raccomandata di Poste a M. F. del 8.9.2009 – la vicenda, oltre ad essere risalente (il che giustifica la dimenticanza della F. nel riferirla al Tribunale), è di nessun rilievo ai fini del decidere. La sua inconsistenza quale rilievo disciplinare emerge da dati oggettivi e incontrovertibili in forza anche delle circostanze chiarite all’udienza (cfr. verbale telematico sul punto).
  3. La domanda della ricorrente deve dunque essere rigettata.
  4. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo in base ai parametri per i compensi per l’attività forense di cui al D.M. n. 55/2014 (applicabile ratione temporis alla presente liquidazione giusta quanto previsto all’art. 22 del citato D.M.) tenuto conto dell’assenza di attività istruttoria e della natura della causa.

P  .  Q  .  M  .

Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da Poste Italiane SpA con ricorso depositato in data 19.1.2017, disattesa ogni diversa istanza o eccezione, così provvede:

1)         Rigetta l’opposizione;

2)         Condanna Poste Italiane SpA alla rifusione, in favore di M.F., delle spese di lite che liquida in complessivi € 3.600,00#, per compensi di avvocato, oltre spese forfettarie, IVA e CPA come per legge.

            Grosseto, 1 marzo 2017

IL GIUDICE

Ordinanza 2964.2016

Sentenza 55.2017

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