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La responsabilita’ processuale aggravata ex art. 96 cpc

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I presupposti dell’accoglimento della domanda ex art. 96 c.p.c.  vanno individuati non solo nell’abuso dell’agire o del resistere nel giudizio ma, in generale, vanno identificati quando la parte fa un uso strumentale del processo per scopi diversi da quelli cui esso è preordinato.

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SENTENZA 15029/2023

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI ROMA

Il Tribunale ordinario di Roma – VI Sezione civile, in composizione monocratica, in persona del giudice dott.ssa Roberta Nardone, nell’udienza del 16/10/2023, esaurita la discussione orale e udite le conclusioni della parte presente, ha pronunciato, ai sensi dell’art. 429 c.p.c., la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al n. 55390/2023 del Ruolo generale affari contenziosi dell’anno 2023

tra

R. C. ,. rappresentata e difesa, congiuntamente e disgiuntamente, dall’Avv. L. I. e Avv. E. I. giusta mandato in calce al presente atto, presso i quali elettivamente domicilia

e

G. R. elettivamente domiciliato in Roma alla Via Ugo De Carolis 31, presso lo studio dell’Avv. Vito Sola, C.F. SLOVTI63P14I720G, email: segreteria@studiolegalesola.it, pec: vitosola@ordineavvocatiroma.org, fax 178.2746256, dal quale è rappresentato e difeso giusta procura in atti

CONCLUSIONI: come da verbale di udienza del 16.10.2023.

OGGETTO: azione di arricchimento senza causa

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

Con atto di citazione ritualmente notificato, R. C. conveniva in giudizio R. G.  per ottenere la condanna del convenuto al pagamento della somma di euro 40.000,00 a titolo di ingiustificata “utilitas” di cui lo stesso si sarebbe giovato a fronte delle opere migliorative e delle addizioni apportate all’immobile sito in Roma, Via dei G. di proprietà del R. ed eseguite dalla parte attrice quale conduttrice del bene. Precisava parte attrice che il contratto originario era stato stipulato il 01.04.2009 con C. F. cui era subentrata dall’11.3.2011 l’attrice con la quale il R.  aveva stipulato, poi, nuovo contratto di locazione, registrato presso l’Agenzia delle Entrate di Roma.

 

La R. precisava che nel 2020 il locatore aveva proposto nei suoi confronti azione di sfratto per morosità; di essersi opposta al provvedimento di convalida e di avere articolato tra le altre, domanda riconvenzionale volta a far accertare l’arricchimento indebito del proprietario dell’immobile, derivante dalle modifiche che la detta aveva apportato allo stesso per renderlo conforme all’uso alberghiero e, in particolare, ristrutturazioni innovative ed addizioni volte a far sì che la res potesse essere destinata ad un utilizzo ricettivo (giudizio iscritto al n. 50830/2020); che la CTU disposta in quella sede aveva riconosciuto la presenza delle migliorie senza za poter giungere ad una quantificazione dell’utilitas apportata per carenza della produzione documentale, che la R., dunque, aveva rinunciato agli atti del giudizio, riservandosi la possibilità di agire in separata sede per l’arricchimento.

Era stato, quindi instaurato l’odierno procedimento.

La R.  riproponeva, quindi, domanda ex art. 2041 c.c., producendo documentazione atta a dimostrare di aver posto in essere le attività di ristrutturazione del bene locato, chiedendo, dunque, la condanna del convenuto al pagamento della somma indicata in premessa.

Si costituiva in giudizio il convenuto eccependo la litispendenza con il giudizio RG. 50830/2020 attesa la identità delle domande proposte dalla R.; concludeva per il rigetto delle domande di controparte, adducendo, da un lato, l’abuso dello strumento processuale e l’inammissibilità dell’azione per abusivo frazionamento del credito e, dall’altro, nel merito, la infondatezza dell’avversa domanda. Proponeva, altresì domanda ex art. 96 c.p.c. co. 1, adducendo la natura stigmatizzabile della condotta processuale di parte attrice.

Disposta la conversione del rito in locatizio ed assegnati i termini per l’integrazione degli atti ex art. 426 c.p.c. la causa è stata discussa all’udienza del 16.10.2023 e definita con lettura del dispositivo e contestuale motivazione.

***

Deve preliminarmente essere rigettata l’eccezione di litispendenza formulata da parte convenuta.

A ben vedere, infatti, l’istituto predetto opera esclusivamente nel caso in cui due cause, con medesime parti ed identici petita, pendano davanti a due diversi uffici giudiziari.

Ed infatti: “gli istituti della litispendenza e della continenza, operando soltanto tra cause pendenti dinanzi a uffici giudiziari diversi, non sono applicabili se le cause identiche o connesse pendano dinanzi al medesimo ufficio giudiziario, anche se in gradi diversi, di talché, non essendo l’omessa riunione motivo di invalidità, sarà opponibile il giudicato prima intervenuto (…)” (Cass. civ. n. 10183/2023).

Non è possibile, dunque, dichiarare la litispendenza e la correlata estinzione del giudizio, essendosi al cospetto di due domande aventi comunanza di parti e di petita, pendenti innanzi a giudici nel medesimo ufficio giudiziario.

La domanda di parte attrice deve essere rigettata.

A ben guardare, la R. deduce di aver apportato innovazioni migliorative all’immobile oggetto del contratto di locazione; chiede, quindi, di essere indennizzata della diminuzione patrimoniale ad essa derivata, nei limiti dell’arricchimento maturato in capo al convenuto, che quantifica – nella valutazione del minor valore tra il lucro conseguito e la perdita subita – in euro 40.000,00.

Ebbene, la prova del depauperamento di parte attrice – oltre che dell’incremento patrimoniale del convenuto – spetta all’attrice la quale, tuttavia, nulla ha prodotto per attestare l’esborso economico posto in essere al fine di rendere l’immobile idoneo alla finalità ricettiva.

A ben vedere, infatti, la documentazione versata in atti, che parte attrice ha prodotto al fine di provare gli esborsi, è interamente riferibile al precedente rapporto contrattuale (del 2009) e, soprattutto, al periodo antecedente il subentro dell’attrice nel contratto di locazione (anno 2011). Ciò, infatti, si rende evidente in relazione al contratto d’appalto, volto all’effettuazione dei lavori e delle opere relativi alla trasformazione della res, stipulato nel 2009 e che vedeva, appunto, quale committente, il precedente conduttore (all. 14 fasc. parte attrice); medesimo discorso vale per tutta la restante documentazione versata in atti, incluso il documento di contabilità di fine lavori, nonché l’insieme delle fatture depositate, attestanti gli esborsi economici sostenuti al fine di mutare l’assetto interno dell’immobile per renderlo idoneo alla finalità ricettiva (docc. 15, 16, 18 e 21 fasc. Parte attrice).

Non risulta, dunque, in alcun modo provato che la R. abbia effettivamente subito un impoverimento e che, quindi, il vantaggio di cui il locatore si sarebbe giovato – riottenendo un immobile ristrutturato e modificato in melius – sia correlato alla diminuzione patrimoniale della R., che in effetti, sulla scorta delle allegazioni prodotte, pare essere subentrata nel contratto di locazione quando i lavori erano già stati posti in essere e gli esborsi economici, per mutare l’assetto dell’immobile, ultimati.

Deve essere accolta la domanda ex art. 96 co, 1 c.p.c formulata dal convenuto.

L’art. 96 c.p.c. presta una tutela di tipo aquiliano, avente carattere di specialità rispetto a quella prevista, in via generale, dall’art. 2043 c.c., per sanzionare il comportamento tenuto dalla parte in ambito processuale e prevede la condanna al risarcimento dei danni per responsabilità processuale aggravata come reazione non solo all’abuso dell’agire o del resistere in giudizio, ma, in generale, per un uso strumentale del processo per scopi diversi da quelli a cui esso è preordinato.

Ebbene, tale peculiare pregiudizio, rientrando nel generale genus della responsabilità aquiliana, deve essere sostenuto dalla prova degli elementi costitutivi della pretesa, tra cui, in particolare, il dolo o la malafede della parte che ha agito in giudizio.

Nel caso di specie, peraltro, parte convenuta ha fornito prova della presenza della malafede della R..

A ben vedere, infatti, oltre all’infondatezza ictu oculi della domanda, supportata da materiale documentale completamente inconferente poiché relativo ad oneri e spese soggettivamente riferibili a soggetto terzo e ad un arco di tempo antecedente alla stipula del contratto di locazione da parte dell’odierna attrice, emerge un evidente abuso dello strumento processuale da parte di quest’ultima.

Ed infatti, e per stessa ammissione di parte attrice, a fronte della decadenza nella produzione documentale, maturata nel giudizio instaurato con opposizione alla procedura di sfratto, l’odierna attrice ha strumentalmente abusato degli istituti processuali a sua disposizione, incardinando l’odierno giudizio – a seguito della rinuncia agli atti nell’altra controversia – al fine evidente di eludere la decadenza nella quale era incorsa.

Quanto alla quantificazione dei danni, la giurisprudenza, ormai da tempo, afferma, in relazione al co. 1 dell’art. 96 c.p.c. che: “Il secondo presupposto (ai fini della pronuncia ex art. 96 co. 1 c.p.c.) richiede, invece, l’esistenza di un danno e la prova da parte dell’istante sia dell’ “an” che del “quantum debeatur”, il che non osta a che l’interessato possa dedurre, a sostegno della sua domanda, condotte processuali dilatorie o defatigatorie della controparte, potendosi desumere il danno subito da nozioni di comune esperienza anche alla stregua del principio, ora costituzionalizzato, della ragionevole durata del processo (art. 111, comma 2, Cost.) e della legge n. 89 del 2001 (c.d. legge Pinto), secondo cui, nella normalità dei casi e secondo l’ “id quod plerumque accidit”, ingiustificate condotte processuali, oltre a danni patrimoniali (quali quelli di essere costretti a contrastare una ingiustificata iniziativa dell’avversario sovente in una sede diversa da quella voluta dal legislatore e per di più non compensata sul piano strettamente economico dal rimborso delle spese ed onorari liquidabili secondo tariffe che non concernono il rapporto tra parte e cliente), causano “ex se” anche danni di natura psicologica, che per non essere agevolmente quantificabili, vanno liquidati equitativamente sulla base degli elementi in concreto desumibili dagli atti di causa” (Cass. sent. 24645/2007). A ben vedere, dunque, a fronte di un danno che può essere equitativamente determinato, non postulando questo, di per sé, una sua ponderazione quale pregiudizio in re ipsa, in relazione alle peculiarità del caso concreto, è possibile ritenere che esso possa quantificarsi in una somma pari ad 1/3 delle spese processuali, conteggiate sulla scorta del valore minimo dei parametri professionali di cui al D.M. del 2014, ossia in euro 1.269,00.

Le spese di lite seguono la soccombenza e devono liquidarsi in euro 3.809,00 prendendo in considerazione i parametri minimi dello scaglione di riferimento, a fronte della non particolare complessità della vicenda processuale in oggetto.

Per Questi Motivi

Il Tribunale di Roma, sez.VI civile, in persona del giudice dott.ssa Roberta Nardone, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da R. C. nei confronti di R.  G., così decide:

– rigetta la domanda della ricorrente;

– accoglie la domanda, formulata da parte convenuta, ex art. 96 c.p.c. e condanna R.  C. al pagamento in favore della resistente della somma di euro 1.269,00 e degli interessi maturandi dalla pubblicazione della sentenza sino all’effettivo soddisfo;

– condanna parte attrice alla refusione in favore del convenuto delle spese di lite che liquida in euro 3.809,00 per compensi, oltre accessori di legge e rimborso forfettario (15%).

Così deciso in Roma, il 16 ottobre 2023.

Il giudice

Dott.ssa Roberta Nardone

La minuta della presente sentenza è stata redatta con la collaborazione della MOT dott.ssa Daniela D’Adamo.

 

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