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Natura subordinata del rapporto di lavoro. Caratteristiche

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La natura subordinata del rapporto di lavoro si configura solo ove sia dimostrata la subordinazione, intesa quest’ultima come esercizio del potere direttivo e/o sanzionatorio nell’ambito del rapporto di lavoro.

Studio Legale Avv. Vito Sola
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TRIBUNALE  DI MILANO

SEZIONE LAVORO

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il G.O.T. dott.ssa Sandra Leo, in delega della dott.ssa Piera Gasparini, quale giudice del lavoro, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al n. 15899/2013 R.G.L. promossa da V.H., con l’avv. R.L. e la dott.ssa A.G.

– ricorrente –

P.P., con l’avv. G.P.

– resistente –

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ricorso ex art. 414 c.p.c. depositato nella Cancelleria dell’intestato Tribunale in data 3.12.2013, la sig.ra H.V. ha convenuto in giudizio il sig. P.P., deducendo di aver prestato la propria opera alle dipendenze di quest’ultimo, con mansioni di lavoratrice domestica e baby sitter, dall’1.06.2013 al 31.08.2013. Precisava di aver svolto la prestazione lavorativa con orario dalle 9.00 alle 20.00, dal lunedì al sabato, con un’ora di riposo, essendo stata pattuita tra le parti una retribuzione di Euro 1.000,00 mensili (oltre vitto di mezzogiorno), inferiore a quella prevista in relazione alle mansioni concretamente eseguite (pulizia e riassetto casa, lavaggio e stiraggio biancheria, attività di cura e preparazione dei pasti per i due figli minori del resistente).

Tanto premesso, la difesa della ricorrente – alla luce della natura subordinata della collaborazione lavorativa intercorsa tra le parti, delle mansioni concretamente svolte e del preteso inquadramento al livello BS del C.C.N.L. “Lavoro domestico Colf e badanti” esprimeva le seguenti conclusioni:

“La S.V. Ill.ma, emessi i provvedimenti del caso e di legge, convocate le parti avanti a sé ex art. 415 c.p.c. voglia, in via principale: accertata e dichiarata la natura subordinata del rapporto di lavoro domestico intercorso con la sig.ra V.H. ed il sig. P.P., per il periodo compreso fra il 1.06.2013 e 31.08.2013, riconosciuto alla ricorrente il diritto all’inquadramento nel livello BS, condannare il sig. P.P., residente in M., Via A.V. n. 16, pagare in favore della sig.ra B.H. la complessiva somma di Euro 4.355,63 per i titoli di cui in narrativa del presente ricorso o di quella diversa comunque dovuta, comprensiva di interessi e rivalutazione monetaria. Con vittoria di spese, diritti e onorari di causa”.

Ritualmente costituitosi in giudizio, il resistente contestava il dedotto avverso, negando la sussistenza di qualsiasi rapporto lavorativo con la ricorrente; in diritto, deduceva la lite temeraria di quest’ultima, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c., nella misura di Euro 1.500,00. Concludeva quindi per il rigetto del ricorso, con vittoria di spese di lite.

Tentata senza esito la conciliazione della lite (in quanto il resistente dichiarava la propria indisponibilità a qualsiasi riconoscimento economico in favore della sig.ra V.). il giudice procedeva al libero interrogatorio delle parti.

Quindi, ritenuto superfluo ai fini della decisione ammettere i mezzi di prova indicati dalle difese, invitava i procuratori delle parti alla discussione orale.

La causa era decisa ai sensi dell’art. 429, comma 1 secondo periodo c.p.c., mediante lettura del dispositivo in udienza, e riservato termine di quindici giorni per il deposito della sentenza.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso è infondato, e dev’essere integralmente respinto.

Il necessario presupposto da cui muovono le domande attoree va individuato nella sussistenza di una collaborazione lavorativa riconducibile all’area del lavoro subordinato, tra la ricorrente e il soggetto convenuto in giudizio quale parte datoriale.

Al riguardo, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, è possibile ritenere accertata la natura subordinata di un rapporto di lavoro soltanto ove sia dimostrata – con onere probatorio che, ex art. 2697, comma 1, c.c., grava sul soggetto deducente (cfr. Cass., Sez. Lav., Sentenza, n. 4176 del 24.2.2006; Cass., Sez. L., Ordinanza, n. 17768 del 29.7.2010; Cass., Sez. Lav., Sentenza, n. 2112 del 2.10.2009) – la sussistenza di una serie di indici quali, in particolare, l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro.

Come chiarito dalla Suprema Corte, “ elemento indefettibile del rapporto di lavoro subordinato è la subordinazione, intesa come vincolo di soggezione personale del prestatore al potere direttivo del datore di lavoro, che inerisce alle intrinseche modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative e non già soltanto al loro risultato “(Cass., Sez. Lav., Sentenza, n. 4500 del 27.2.2007; Cass. n. 5645/2009; Cass. n. 21150/2010; Cass. n. 2317/2012).

L’elemento caratteristico della prestazione lavorativa resa in regime di subordinazione va quindi individuato nel potere direttivo, di controllo e disciplinare esercitato dal datore di lavoro nei confronti del dipendente; detto potere si concreta nell’emanazione di ordini specifici e nell’esercizio di una costante attività di vigilanza e controllo nell’esecuzione della prestazione lavorativa, con valutazione da effettuarsi in concreto, avendo riguardo alla specificità dei compiti affidati al prestatore di lavoro e alle modalità della loro attuazione.

Orbene, non si può non vedere come, nel caso di specie, sia emerso, a seguito di quanto ha dischiarato la stessa ricorrente, che il sig. P.P. non ha mai esercitato alcun poter direttivo e/o sanzionatorio nell’ambito del rapporto di lavoro oggetto di giudizio, avendo la stessa signora V. ammesso l’estraneità di quest’ultimo persino rispetto a determinazioni di evidente e significativa valenza contrattuale, quali l’assunzione e il licenziamento della lavoratrice.

La ricorrente, nel libero interrogatorio svoltosi all’udienza del 12.3.2014, ha infatti testualmente affermato:

“Ho iniziato a lavorare a casa della signora V.B., moglie del convenuto, in via I. N. n. 28/A; presi accordi con la stessa signora B. per quanto riguardava l’orario di lavoro e la mia retribuzione , inoltre la signora mi diceva cosa dovevo  fare o mi rimproverava quando sbagliavo a fare qualcosa; venivo pagata a fine mese dal sig. P., sempre in contanti, ricevevo da lui la paga mensile di 1.000 Euro, in un’unica soluzione: In quelle occasioni il sig. P. veniva apposta in macchina dalla signora B., io scendevo e per strada lui mi consegnava i soldi. (…) “Il sig. P. abitava altrove, e non era mai a casa della signora B., L’orario di lavoro”; “Nell’ agosto 2013 ho accompagnato la signora B. e i due bambini a M., a casa di un’amica della signora, in quella occasione non c’era il sig. P.. Al ritorno a M. fui pagata sempre dal sig. P., il quale mi diede 450 Euro, quella volta per avere i soldi mi recai con mio marito a casa del sig. P., ricordo che ciò avvenne prima del mio licenziamento. Il sig. P. senza che entrassi in casa mi gettò i soldi, avvolti in un sacchetto. Ho sempre lavorato in via I. N. n. 28/A con la signora B., mentre una mia amica connazionale filippina tal M.M., lavorava dal sig. P., in un’altra abitazione, credo situata in via V. Io non ho mai lavorato in tale ultima abitazione. Il mio rapporto di lavoro finì il 31 agosto 2013 in quanto fui licenziata dalla sig.ra V., che improvvisamente mi disse di non andare più a lavorare da lei”.

La deposizione si pone in palese contrasto con la ricostruzione in fatto e in diritto prospettata dalla medesima parte processuale nel ricorso introduttivo.

Risulta pacifico tra la parti che all’epoca dei fatti che qui rilevano, il sig. P.P. risiedesse in immobile posto in via V., e che per attriti con l’ex coniuge (in regime di separazione dei beni, cfr. doc. 3 fascicolo di parte resistente) evitasse di frequentare l’abitazione familiare situata in via N., ove la ricorrente ha (per sua stessa ammissione) esclusivamente lavorato; che nel mese di agosto la signora V. si recò a M. ma non già a disposizione e nell’interesse del sig. P., bensì al seguito della signora V.B., presso un’amica di quest’ultima.

Alla luce delle considerazione sopra svolte è evidente l’assoluta superfluità ed irrilevanza, ai fini della decisione, della circostanza inerente al pagamento della retribuzione ad opera del sig. P., più volte posta in risalto dalla parte ricorrente, ma di per sé non idonea (anche qualora accertata) a ribaltare il quadro probatorio sin qui descritto.

In conclusione, per tutte le ragioni sopra esposte, da ritenersi assorbenti rispetto  ad ogni ulteriore rilievo formulato dalle parti, deve concludersi per l’infondatezza del ricorso e per il rigetto delle domande svolte dalla ricorrente.

Anche la domanda del resistente, volta al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c. non può essere accolta, in quanto genericamente prospettata, non avendo le parti, non avendo la parte assolto all’onere di allegare, nella memoria ex art. 416 c.p.c., gli elementi di fatto necessari alla liquidazione, pur equitativa, del preteso danno.

Al riguardo la giurisprudenza di legittimità ha più volte ribadito il principio secondo cui la liquidazione del danno da responsabilità processuale aggravata ex art. 96 c.p.c., ancorché possa effettuarsi anche d’ufficio, postula pur sempre la prova gravante sulla parte che chiede il risarcimento sia dell’an che del quantum debeatur, o almeno la concreta desumibilità di detti elementi dagli atti di causa (Cass. n. 8754/2006; cass. n. 18169/2004; n. 13355/2004; n. 7583/2004).

Peraltro, ad colorandum, si rileva che la condotta processuale della parte ricorrente, che ha ammesso spontaneamente circostanze risolutive a sé sfavorevoli, induce ad escludere che la stessa abbia intenzionalmente posto in essere una lite temeraria.

Venendosi da ultimo al regolamento delle spese di lite, alla stregua del criterio generale di cui all’art. 91 c.p.c., la ricorrente dev’essere condannata a rifonderle alla parte convenuta, nella misura liquidata in dispositivo, in quanto il rigetto della sola domanda del resistente, relativa al risarcimento dei danni per lite temeraria, non giustifica la compensazione delle spese.

La liquidazione dei compensi legali si discosta dalla nota spese allegata in udienza dal difensore del ricorrente. A tale proposito si rileva che in coerenza con la previsione di cui all’art. 4 D.M. n. 55 del 2014, avuto riguardo al valore, all’importanza e alla difficoltà della causa, all’attività prestata, al numero di udienze e alla complessità delle questioni trattate, nonché considerata l’assenza di attività istruttoria, gli indici tabellari di riferimento devono essere opportunamente ridotti, nella misura consentita.

La presente sentenza è provvisoriamente esecutiva ex art. 431 c.p.c..

PQM

respinge il ricorso;

– rigetta ogni altra domanda;

– condanna la parte ricorrente a rifondere alla parte resistente le spese di lite, liquidate nel complessivo importo pari ad Euro 1.760,00 oltre spese generali (15%), IVA e CPA come per legge.

Sentenza provvisoriamente esecutiva.

Fissa termine quindici giorni per il deposito della sentenza

Così deciso in Milano, il 4 aprile 2014

        Il Giudice

         d.ssa Sandra Leo

 

 

DEPOSITATO IN CANCELLERIA

il 4 aprile 2014

 

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