dell'avvocato Vito Sola, patrocinante in Cassazione

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Abuso del processo e art. 96 c.p.c.

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Nel caso in cui una parte del processo ritenga di opporsi alle legittime richieste con argomenti ininfluenti o futili, legittima il Tribunale alla condanna per lite temeraria ex art. 96 cpc,

 

Studio Legale Avv. Vito Sola
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SENTENZA 4071/2017

UDIENZA DEL GIORNO 28/02/2017 NELLA CAUSA n° 13846/2016 R.G.
VERBALE DI DECISIONE IMMEDIATA ALLEGATO AL VERBALE DI UDIENZA

Udita la discussione orale, all’esito della deliberazione, il G.U.
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

dà lettura della seguente

SENTENZA

nella causa civile in grado d’appello iscritta al n° 13846 R.G. 2016, vertente tra S.P. (avv. SOLA VITO) e V.G. (Avv. S. P.).
Il dott. S. P., medico veterinario, ha impugnato la sentenza n° 2425/15, pubblicata mediante deposito in cancelleria il 20.1.2015, con la quale era stata accolta l’opposizione spiegata dalla sig.ra V.G. avverso un decreto ingiuntivo emesso in suo danno per € 96,00. In sede di giudizio di merito, il convenuto opposto ha formulato le conclusioni chiedendo, in via subordinata ed in difetto di conferma dell’ingiunzione (chiesta in via principale), la condanna dell’opponente al pagamento della suddetta somma “o di quella somma maggiore o minore che ì, anche in via equitativa verrà ritenuta di giustizia”. Tale estensione della domanda ad eventuali somme maggiori era, però, una mera formula di stile, comunque inammissibile perché il petitum era cristallizzato nel ricorso monitorio.
Trattasi pertanto, in questa sede, di appello avverso una sentenza pronunciata secondo equità: tali essendo le sentenze del Giudice di Pace rese in controversie di valore inferiore al limite di cui all’art 113 c.p.c. (1.100,00 euro), a prescindere dagli eventuali riferimenti a norme di diritto contenuti nella motivazione.
Avverso tali sentenze, l’appello è inammissibile nei soli limiti di cui all’art. 339, ultimo comma, c.p.c.
Nella specie, l’appellante si duole del rigetto, implicito e privo di motivazione, delle istanze di prova formulate in primo grado, e del conseguente rigetto della domanda monitoria sulla scorta della sola prova documentale in atti, ritenuta dal giudice inidonea a corroborare la pretesa creditoria. Censura, inoltre, l’abnormità della condanna alle spese, senza però farne oggetto di specifica domanda di riforma in sede di conclusioni.
La doglianza relativa al difetto assoluto di motivazione del rigetto tacito delle istanze istruttorie attiene ad un vizio del procedimento che ridonda nella violazione di un precetto costituzionale (art. 111 Cost.). Inoltre, si evince dall’atto di appello che il P., pur senza sviluppare il tema come sarebbe stato auspicabile, ha inteso censurare la violazione dell’ art. 115, comma 1 c.p.c., nella parte in cui esso, stabilendo che il “il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti”, esprime un principio regolatore della materia, consistente nel dovere di giudicare juxta alligata et probata.
Sotto il profilo dell’art. 342 c.p.c., l’appellante ha poi chiaramente dedotto che la prova non ammessa, se espletata, avrebbe consentito di completare il quadro istruttorio e di giungere ad una decisione favorevole.
Ne consegue che l’appello va dichiarato ammissibile.
Ciò premesso, ritiene il Tribunale che il giudice di prime cure, pur avendo errato nell’omettere qualsiasi motivazione a sostegno del rigetto tacito della prova per interrogatorio formale (la prova per testi non risulta tempestivamente richiesta in primo grado), ha correttamente ritenuto di non espletarla; ma poi è pervenuto a conclusioni erronee nel merito. Ciò in quanto, alla luce degli atti e dei documenti di causa, essa era (e tuttora è) irrilevante.
La sig.ra G., attrice opponente, fondava la propria opposizione su due argomenti, il primo dei quali composito.
In primo luogo, aveva dedotto l’inammissibilità del ricorso monitorio per difetto di prova scritta. Sotto questo profilo, aveva rilevato che il preavviso di parcella del dott. P. non era firmato da lei, bensì da altro soggetto; inoltre, in un separato motivo (che, però, atteneva alla medesima censura), aveva censurato la mancanza del parere di congruità dell’ordine professionale.
Entrambi i motivi erano – e sono – del tutto irrilevanti, perché il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo non è un giudizio impugnatorio, ma un giudizio di cognizione piena vertente sulla pretesa creditoria inizialmente azionata con lo strumento del ricorso monitorio. Ne consegue che, una volta apertasi la fase di merito, il giudice dell’opposizione è chiamato non già a sindacare la legittimità del decreto, bensì ad accertare la sussistenza del diritto e la legittimità della pretesa.
Nel merito, l’opponente non aveva né negato la costituzione del rapporto contrattuale con il dott. P., né contestato l’esattezza delle prestazioni da quest’ultimo fornite (e consistite nelle cure prodigate ad un cane, pacificamente appartenente alla G. che non ne ha mai disconosciuto la proprietà).
Ne consegue che, ai sensi dell’art. 115, comma 1, ultimo periodo, c.p.c., il primo giudice avrebbe dovuto ritenere provati i fatti non contestati (ed anzi in parte espressamente riconosciuti) dall’opponente nell’atto introduttivo (che, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, assolve la funzione di una comparsa di risposta): e cioè l’appartenenza del cane alla G., l’esistenza del contratto ed il corretto adempimento da parte del veterinario.
L’unico argomento di merito addotto dall’opponente a sostegno della propria tesi difensiva consisteva (in prime cura, ma il tema non viene ripreso in questo grado, sicché l’eccezione deve intendersi rinunciata) nell’allegazione – del tutto generica – di un asserito patto di gratuità delle prestazioni successive all’intervento chirurgico praticato sul cane, che sarebbe stato stipulato, dinanzi a non meglio precisati testimoni, al momento dell’intervento stesso. Ora, trattandosi di un’eccezione in senso stretto, tale allegazione (di un patto intervenuto tra le parti in deroga alla presunzione di onerosità del mandato professionale) avrebbe dovuto essere adeguatamente provata da parte dell’opponente: è quindi su quest’ultima, e non sul convenuto opposto, che gravava l’onere probatorio, al quale essa non ha minimamente assolto, non risultando agli atti alcuna offerta di prova a tal fine (ed è oltremodo significativo, del resto, che l’eccezione non sia neppure stata riproposta in questa sede).
In questo senso, dunque, le istanze istruttorie di parte convenuta opposta (oggi appellante) erano irrilevanti: e cioè perché i fatti della cui dimostrazione tale parte era onerata dovevano intendersi già compiutamente accertati per difetto di idonea e tempestiva contestazione specifica, mentre spettava all’opponente fornire prova della propria eccezione. Come irrilevante era, del resto, per queste stesse ragioni, anche il preavviso di parcella firmato da un terzo, anziché dall’intimata, quale che potesse essere il suo valore in sede monitoria.
Ne consegue che l’opposizione avrebbe dovuto esser respinta, e che la sentenza deve in tal senso essere riformata.
Le spese del doppio grado seguono la soccombenza. Ai sensi del D.M. 55/2014, esse vanno liquidate, tenuto conto del valore del petitum, ed avuto riguardo agli importi minimi dello scaglione, quanto al primo grado, in € 63,00 per la fase di studio, € 63,00 per la fase introduttiva, € 133,00 per la fase di trattazione ed € 95,00 per la fase di decisione; il tutto oltre spese generali del 15 % ed oneri di legge con distrazione a favore del procuratore antistatario.
Osserva il Tribunale che, per il pagamento di una somma obiettivamente irrisoria, la G, dopo aver usufruito – pacificamente – delle prestazioni del dott. P., ha ricusato di adempiere, giungendo a proporre un’opposizione basata su argomenti in parte futili ed ininfluente, ed in parte generici e privi di qualsiasi sostegno probatorio, e resistendo all’impugnazione della sentenza con argomenti di merito ancor meno conclusivi di quelli spesi in prime cure. In siffatto comportamento deve ravvisarsi un esempio tipico di abuso del processo, che il legislatore ha inteso sanzionare con l’introduzione dell’ultimo comma dell’art. 96 c.p.c. Invero, la pendenza di un giudizio provoca, nella persona costretta ad affrontarlo, uno stato di ansia e frustrazione che deve ritenersi fonte di danno non patrimoniale risarcibile ogni qualvolta il processo superi la durata ”ragionevole” che si giustifica cin le necessità istruttorie e le esigenze del contraddittorio; ora, è del tutto evidente che un giudizio temerario, che non avrebbe dovuto neppure essere introdotto, ha una durata “irragionevole” per definizione, si dal giorno del suo inizio. Va poi aggiunto che lo stato di frustrazione inflitto alla parte incolpevole è particolarmente accentuato allorché la pretesa ingiustamente contrastata attiene al compenso per lo svolgimento della normale attività lavorativa; compenso dal quale le persone traggono le ordinarie risorse per il sostentamento proprio e della propria famiglia, e che rappresenta anche, sotto il profilo morale e psicologico, il giusto riconoscimento per la prestazione resa con il dispendio delle proprie energie fisiche e/o mentali e l’uso delle nozioni e tecniche acquisite con lo studio e/o l’esperienza: cioè, in definitiva, il compenso per aver posto a servizio del committente o cliente la propria persona, con il suo corredo di qualità, attitudini, conoscenze e capacità. Infine, non può essere trascurato l’effetto perverso che la proposizione di azioni temerarie produce a danno dell’amministrazione della giustizia e della collettività intera, contribuendo all’intasamento dei ruoli ed al rallentamento dei processi.
In considerazione di ciò, ritiene il Tribunale che la G. debba esser condannata, in applicazione dell’ultimo comma dell’art. 96 c.p.c., al pagamento, in favore del dott. P., di un’ulteriore somma equitativamente determinata in € 100,00

P.Q.M.

il Tribunale, nella persona del giudice unico dott. Francesco Crisafulli, definitivamente pronunciando nella causa in epigrafe, disattesa ogni diversa istanza, deduzione ed eccezione, in totale riforma della sentenza appellata, così provvede:
– rigetta l’opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 18263/08 del Giudice di Pace di Roma;
– condanna V.G. a pagare S.P. l’ulteriore somma di € 100,00 per lite temeraria;
– pone le spese del doppio grado di giudizio, liquidate in € 661,25, oltre c.p.a. ed i.v.a. di legge, a carico della parte appellata, con distrazione a favore del procuratore antistatario.
Così deciso in Roma, addì 28.2.2017.

Il giudice
dott. Francesco Crisafulli

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