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Condominio e lesione del decoro architettonico

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In tema di lesione del decoro architettonico di un edificio condominiale, costituisce innovazione lesiva del decoro architettonico del fabbricato condominiale, come tale vietata, non solo quella che ne alteri le linee architettoniche, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio. La relativa valutazione spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, ove non presenti vizi di motivazione (Cfr Cass. Sez. 2, Sent. n. 10350 del 2011).

 

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18928/2020 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SECONDA SEZIONE CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PASQUALE D’ASCOLA – Presidente –

Dott. ALDO CARRATO – Consigliere –

Dott. GIUSEPPE FORTUNATO- Consigliere –

Dott. CHIARA BESSO MARCHESI – Consigliere –

Dott. LUCA VARRONE – Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso 27010-2015 proposto da:
L. , elettivamente domiciliato in ROMA, Via ZZZZ, presso lo studio dell’avvocato YYYY , che lo
rappresenta e difende;

– ricorrente –

nonché contro

AAA SRL,  BBB SRL, CONDOMINIO V  ROMA, D.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2749/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,
depositata il 06/05/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 19/02/2020 del  Consigliere Dott. LUCA VARRONE;

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Roma in composizione monocratica rigettava tutte le domande con le quali L. proprietario di un  appartamento posto al secondo piano di un edificio condominiale sito
in Roma, in aveva chiesto di accertare che la condotta della società S.r.l. esercente attività di  ristorazione in due distinte e comunicanti unità immobiliari poste al piano terra del fabbricato (una di proprietà di D. e l’altra di proprietà della S.r.l., entrambe chiamate in causa unitamente al condominio di                   )  lo esponeva ad intollerabili immissioni rumorose. L’attore chiedeva  anche di condannare la predetta società a ripristinare lo stato dei  luoghi e a risarcirlo dei danni subiti, previo accertamento delle opere realizzate, consistenti nell’apertura di una porta su Via                  nella apposizione di una tenda, di due voluminose insegne luminose, di vetrine e di fari, che recavano pregiudizio al decoro architettonico dell’edificio e che erano state realizzate in assenza delle prescritte autorizzazioni amministrative e in violazione della normativa regolamentare. Il giudice rigettava anche le domande in via riconvenzionale proposte da Srl e condannava l’attore alla rifusione delle spese processuali in favore di tutte le parti convenute e di quelle chiamate in causa.
2. L.  proponeva appello avverso la suddetta sentenza.
Si costituivano S.r.l., il condominio di via  e  la S.r.l. e D.
3. La Corte d’Appello rigettava quasi tutti i motivi  d’impugnazione e accoglieva solo quello relativo alla richiesta di rimozione dell’insegna luminosa recante la scritta

La Corte d’Appello riteneva erronea la sentenza di primo grado perché, al contrario di quanto ivi affermato, era accertato lo stato dei luoghi con riferimento all’esistenza della porta d’ingresso in via     sormontata da una tenda infissa nel muro perimetrale, alla posizione di fari, vetrine e di due insegne luminose.
La Corte d’Appello non riteneva, invece, provate le altre opere asseritamente realizzate all’interno dell’edificio, (copertura finestre prese d’aria della guardiola utilizzo di spazi comuni) né risultava provata l’esistenza di immissioni rumorose e il passaggio nel cortile interno del carico e scarico delle merci.
Il                    nel corso del giudizio di primo grado, non aveva chiesto l’ammissione di alcuna prova per testi ma solo  dell’interrogatorio formale di D. e del legale rappresentante della e tali mezzi istruttori non avevano aggiunto alcun elemento probatorio a sostegno dell’assunto di parte attrice. Pertanto, con riferimento a tali doglianze, la sentenza doveva  essere confermata, mentre per le opere la cui sussistenza poteva ritenersi accertata doveva confermarsi la sentenza di primo grado nella parte in cui le aveva ritenute legittime, considerandole
espressione del diritto del condomino ex articolo 1102 c.c. atteso che le stesse non alteravano la consistenza e la destinazione del muro perimetrale ne impedivano agli altri condomini di farne parimenti uso secondo il loro diritto.
3.1 Con riferimento invece alla doglianza relativa alla violazione del decoro architettonico, la Corte d’Appello riteneva che la stessa fosse fondata solo relativamente all’insegna luminosa posta su via               recante la scritta             . Infatti, ai sensi dell’articolo 1120, comma due, c.c., dall’esame del materiale fotografico acquisito  risultava evidente che tale insegna luminosa che correva lungo la gran parte della faccia del fabbricato, inserendosi in un contesto lineare di finestre cornicioni, era ben visibile e percepibile dalla strada stante la sua luminosità e le sue notevoli dimensioni. Non poteva, dunque, dubitarsi che l’impatto visivo del manufatto sulla facciata fosse notevole e costituisse un’alterazione appariscente e di non
trascurabile entità tale da provocare un pregiudizio estetico all’insieme. Sussisteva, pertanto, con riferimento a detta insegna, la lesione del decoro architettonico dello stabile. Diversa, invece, era la valutazione della Corte per quanto riguardava l’insegna posta sul muro dell’edificio prospiciente , in quanto D. proprietario dei locali, aveva provato, producendo il relativo
contratto di compravendita del 14 gennaio 1976, che unitamente all’immobile, gli era stato trasferito il diritto di servitù coattiva a mantenere l’insegna luminosa esistente su via
3.2 La Corte d’Appello respingeva anche il secondo motivo di  appello del                 relativo all’istanza di ammissione di una CTU per accertare il pregiudizio al decoro architettonico, in quanto si trattava di una valutazione circa la sussistenza del pregiudizio estetico riservata al giudicante.
L’appellante censurava con il terzo motivo l’omessa motivazione in ordine al rigetto della domanda relativa alle immissioni intollerabili di rumore. La Corte d’Appello confermava il rigetto della domanda, assumendo che era del tutto sfornito di prova l’assunto in fatto dell’attore. Spettava infatti a quest’utimo fornire la dimostrazione dell’esistenza delle asserite immissioni e solo in presenza della prova delle stesse i giudici avrebbero potuto disporre una CTU per verificare l’eventuale superamento della soglia di normale tollerabilità.
3.3 La Corte d’Appello rigettava anche il motivo relativo alla illegittimità delle opere realizzate in violazione della normativa condominiale, in particolare con riferimento all’articolo 13 del  regolamento e accoglieva il motivo relativo alle spese processuali.

4. L- ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di quattro motivi di ricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione dell’articolo 1120 c.c., dell’articolo 1102 c.c., e dell’articolo 2697 c.c. dell’articolo 116 c.p.c. in punto di rigetto della domanda di violazione del decoro architettonico del fabbricato relativo alle vetrine, tende fari apposti dalla società S.r.l. nonché omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti ex articolo 360, n. 5, c.p.c.                                                                                                                                                                                                                                  Il ricorrente lamenta che la Corte d’Appello non abbia valutato le opere sopra indicate come lesive del decoro architettonico e che abbia omesso di esaminare la perizia giurata depositata dalla parte attrice in primo grado che aveva accertato che le stesse costituivano interventi di notevole impatto in pieno contrasto con lo stile architettonico del palazzo di . La Corte d’Appello, inoltre, avrebbe omesso di valutare il contesto dove è ubicato l’immobile, l’incidenza dei manufatti in relazione all’intero condominio trattandosi di un immobile di pregio fortemente deprezzato dalle suddette opere.
1.2 Il motivo è infondato.
La Corte intende dare continuità al seguente principio di diritto:  «Costituisce innovazione lesiva del decoro architettonico del fabbricato condominiale, come tale vietata, non solo quella che ne alteri le linee architettoniche, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio. La relativa valutazione spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, ove non presenti vizi di motivazione» (Sez. 2, Sent. n. 10350 del 2011).

Nella specie, la Corte d’Appello ha motivato sulle ragioni per le quali i manufatti in esame non concretizzavano un’alterazione del decoro del fabbricato di via                  , distinguendoli rispetto  all’insegna luminosa ritenuta, invece, lesiva, e tale apprezzamento, come si è detto, sfugge al sindacato di legittimità (vedi anche Sez. 2, Sent. n. 8731 del 1998).
Quanto all’omesso esame della perizia di parte, deve ribadirsi che dopo la riforma dell’art. 360, n. 5, il sindacato della Corte è limitato all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che non può essere costituito dall’omesso esame di una perizia giurata di parte che per orientamento costante di questa Corte costituisce solo una mera allegazione difensiva priva di autonomo valore probatorio (Sez. 1, Ordinanza n. 26305 del 18/10/2018).
2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione dell’articolo 1120 c.c. dell’articolo 1102 c.c. e dell’articolo 2697 c.c. dell’articolo 61 c.p.c. dell’articolo 116 c.p.c. per la mancata ammissione della CTU diretta ad accertare la violazione del decoro architettonico del fabbricato relativo alle vetrine, tende fari apposti dalla società S.r.l.
La Corte d’Appello ha rigettato il motivo di appello con il quale si chiedeva di disporre la consulenza tecnica di ufficio e ciò nonostante l’appellante avesse allegato una perizia giurata stragiudiziale delle fotografie depositate agli atti
2. Il secondo motivo di ricorso è infondato.
Come si è detto con riferimento al primo motivo costituisce orientamento consolidato quello secondo il quale: «La perizia stragiudiziale non ha valore di prova nemmeno rispetto ai fatti che il consulente asserisce di aver accertato, ma solo di indizio, al pari di ogni documento proveniente da un terzo, con la conseguenza che la valutazione della stessa è rimessa all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito che, peraltro, non è obbligato in nessun caso a tenerne conto» (Sez. 5, Ord. n. 33503 del 2018).
In ogni caso il giudizio sulla necessità ed utilità di far ricorso allo  strumento della consulenza tecnica d’ufficio rientra nel potere discrezionale del giudice del merito, la cui decisione è incensurabile nel giudizio di legittimità salvo che ciò abbia comportato l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali e che sia stato oggetto di discussione tra le parti, ed abbia carattere decisivo (ex plurimis Sez. 1, Sent. n. 7472 del 2017).
3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione degli articoli 844 c.c. 2043 c.c. 2059 c.c. 2697 c.c. articoli 61, 115, 116 c.p.c. in punto di rigetto della domanda relativa all’assenza nella locale adibito a pub di idoneo impianto di insonorizzazione a norma della sussistenza di immissioni intollerabili con condanna al risarcimento dei danni.
Il ricorrente lamenta che la Corte d’Appello abbia confermato la decisione di primo grado per assenza di prova delle immissioni rumorose senza considerare che non vi era  ontestazione sul punto e  senza ritenere necessario l’espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio.
Secondo il ricorrente la sussistenza dei rumori non era stata contestata dalla società convenuta e, dunque, il fatto doveva ritenersi provato ex articolo 115 c.p.c. inoltre la sussistenza di rumori che superano la cosiddetta normale tollerabilità è un accertamento che soltanto un tecnico nominato dal giudice poteva compiere. Doveva dunque essere fatta una consulenza cosiddetta percipiente necessaria quando l’accertamento di un fatto richieda cognizione tecnica
3.1 Il terzo motivo di ricorso è infondato.

Quanto alla violazione del principio di non contestazione in ordine alla sussistenza delle immissioni si tratta all’evidenza di una questione nuova, oltre che manifestamente infondata. Infatti, nella sentenza impugnata non vi è alcun cenno ad essa e, il ricorrente non indica se la stessa, in riferimento al suddetto principio di non contestazione, costituiva uno dei motivi di appello, posto che in primo grado la sua domanda era stata integralmente rigettata.
A tal proposito deve richiamarsi l’orientamento consolidato di questa Corte secondo il quale il ricorrente, a pena di inammissibilità della censura, deve non solo allegare l’avvenuta deduzione della censura dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel thema decidendum del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio.
In ogni caso è di tutta evidenza che nella specie le parti convenute avevano resistito contestando integralmente la pretesa attorea.
Quanto alla consulenza tecnica, deve premettersi che la stessa può essere sia strumento di valutazione tecnica che di accertamento di situazioni di fatto rilevabili solo mediante il ricorso a determinate cognizioni tecniche e, qualora la parte solleciti l’esercizio del potere ufficioso di disposizione della consulenza per accertare fatti di tale specie, il giudice deve motivare l’eventuale diniego. Nel caso di specie le ragioni del diniego espresse sia dalla sentenza della Corte d’Appello che da quella del Tribunale vertono sulla mancanza di allegazione e prova dell’esistenza in fatto delle immissioni rumorose.  Tali ragioni sono conformi alla giurisprudenza di questa Corte che non ammette le c.d. consulenze esplorative, ritenendo necessario per l’espletamento delle stesse che vi sia almeno un principio di prova,  anche solo indiziaria, che possa far ritenere sussistente il fatto da provare. Con riferimento specifico alla  tematica delle immissioni  rumorose, a solo titolo esemplificativo, è necessario che l’attore indichi dei testimoni almeno sugli orari o verbali di accesso dei vigili o della polizia a seguito di chiamate in orario notturno anche effettuate da terzi, giacché il fastidio da musica e schiamazzi si diffonde a raggiera.
Conclusivamente sul punto, il Collegio intende dare continuità al seguente principio di diritto: «La consulenza tecnica d’ufficio non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze. Ne consegue che il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di  esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla
deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati» (Sez. 6-1, Ord. n. 30218 del 2017)
4. Il quarto motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione degli articoli 91 e 92 c.p.c.
Il ricorrente è stato condannato in primo grado a rifondere le spese con legali nei confronti di tutte le parti processuali, anche di quelle chiamate in causa dal convenuto principale S.r.l. In  grado di appello. Tale statuizione è stata oggetto di censura da parte del ricorrente e la Corte d’Appello ha affermato che la chiamata in causa di D.  si era resa necessaria per  dimostrare l’esistenza della servitù a carico del condominio e dei singoli condomini a mantenere l’insegna luminosa.

Sicché sarebbe erronea la parte della sentenza con la quale è stato posto a carico della parte vittoriosa, seppur parzialmente, il pagamento di 2/3 delle spese processuali nei confronti di
È noto infatti che dall’esito finale della lite la parte che risulti vittoriosa per l’effetto dell’accoglimento anche non integrale della sua domanda non può subire la condanna al pagamento delle spese processuali sostenute dalla parte soccombente.
4.1 n quarto motivo è infondato.
Nella giurisprudenza di questa Corte si è consolidato l’orientamento secondo il quale «La nozione di soccombenza reciproca che consente la compensazione parziale o totale delle spese
processuali, sottende – anche in relazione al principio di causalità – una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate, che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo fra le stesse parti, ovvero l’accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, allorché essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri, ovvero una parzialità dell’accoglimento anche meramente quantitativa, riguardante una domanda articolata in unico capo» (Sez. 3, Sent. n. 516 del 2020).
In tali ipotesi la regolazione delle spese di lite va effettuata sulla base del principio di causalità, infatti, laddove sia disposta la compensazione parziale delle spese di lite, è la parte che abbia dato causa in misura prevalente agli oneri processuali, e alla quale quindi questi siano in maggior misura imputabili, quella che può essere condannata al pagamento di tale corrispondente maggior misura.
Al fine di individuare la parte alla quale siano imputabili in misura prevalente gli oneri processuali, il giudice di merito dovrà effettuare una valutazione discrezionale, sebbene non arbitraria ma fondata sul criterio costituito dal principio di causalità, il quale si specifica nell’imputare idealmente a ciascuna parte gli oneri processuali causati all’altra per avere resistito a pretese fondate ovvero per avere avanzato pretese infondate, e nell’operare una ideale compensazione tra essi (con la precisazione che, in tale ideale compensazione, alla
parte che agisce vanno riconosciuti per intero gli oneri necessari per la proposizione delle pretese fondate, ridotti in ragione della maggior quota differenziale degli oneri necessari alla controparte per resistere anche alle pretese infondate), e ciò sempre che non sussistano particolari motivi (da esplicitare in motivazione) tali da giustificare la integrale compensazione, o comunque una modifica del carico delle spese (sotto il profilo della esclusione della ripetibilità di una quota di esse in favore della parte pur vittoriosa) in base alle circostanze di cui
è possibile legittimamente tener conto ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c. (Sez. 3, Sent. n. 3438 del 2016).
Nel caso in esame il ricorrente è risultato parzialmente soccombente in relazione ad una domanda articolata in più capi dei quali solo uno è stato accolto in appello, quello relativo alla violazione  del decoro architettonico per l’insegna luminosa recante la scritta
posta su . Viceversa, sono stati rigettati tutti i  restanti capi della domanda relativi alle immissioni rumorose e alla violazione degli artt.1102 e 1117 c.c. in relazione alle opere
realizzate, consistenti nell’apertura di una porta su via     nella apposizione di una tenda, di una delle due insegne luminose, di vetrine e di fari, delle quali si chiedeva la rimozione oltre che il risarcimento del danno.
In conclusione, la regolazione delle spese effettuata dalla Corte  d’Appello è immune dalle censure di violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. lamentate con il motivo in esame.
5. Il ricorso è rigettato.
6. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

7. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna da ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 4000 più 200 per esborsi;
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2″ Sezione civile in data 19 febbraio 2020.

IL PRESIDENTE
Pasquale D’Ascola

CORTE DI CASSAZIONE

sezione II Civile 

DEPOSITATO IN CANCELLERIA

ROMA 11 SET 2020

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