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L’omessa notifica del ricorso nel giudizio del lavoro. Conseguenze.

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Il Tribunale di Roma interviene in tema di omessa notifica del ricorso introduttivo nel giudizio del lavoro. E’ onere della parte istante attivarsi affinché la notifica abbia esito positivo. Ne consegue, anche ove la parte si sia tempestivamente attivata per la notifica originaria, la perdita della facoltà di ottenere dal giudice la rimessione in termini ai sensi dell’art. 153 cpc (v. Cass. 9114-12). A maggior ragione, lo stesso effetto consegue quando la parte non abbia neanche provveduto a tempestiva, originaria notifica del ricorso, non mettendosi così in condizione di riattivare in tempi ragionevoli il procedimento notificatorio con esito positivo.

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SENTENZA 5013/15

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI ROMA

2° Sezione Lavoro

nella persona del giudice Alessandro NUNZIATA, all’udienza del 19-5-2015 ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile in 1° grado iscritta al n. 1355-14 RGAC, vertente TRA P.D. D., rappresentata e difesa dagli avv.ti Ugo Ojetti e Giovanni Paolo Bertolini

                                                                                ricorrente

E

G.M., rappresentata e difesa dall’Avv. Vito Sola

                                                                        resistente

E

B. G.

resistente non costituita

CONCLUSIONI

Come da ricorso introduttivo e comparsa di risposta

MOTIVI DELLA DECISIONE

La domanda proposta nei confronti di B.G. è inammissibile.

La notifica del ricorso introduttivo è stata effettuata alla resistente B. G. con esito negativo. La parte suddetta non si è costituita.

In tema di notificazioni degli atti processuali, qualora la notificazione dell’atto, da effettuarsi entro un termine perentorio, non si concluda positivamente per circostanze non imputabili al richiedente, questi ha la facoltà e l’ “onere”  – anche alla luce del principio della ragionevole durata del processo,  atteso che la richiesta di un provvedimento giudiziale comporterebbe un allungamento dei tempi del giudizio  – di richiedere all’ufficiale giudiziario la ripresa del procedimento notificatorio. Infatti, l’interpretazione nel senso che è possibile l’assunzione diretta da parte dell’interessato dell’iniziativa finalizzata al positivo compimento sulla notificazione corrisponde anche all’esigenza di rispettare la direttiva costituzionale sul giusto processo, secondo cui la legge ne assicura la ragionevole durata (art. 111 Cost., comma 2), essendo evidente che la necessità della richiesta di un provvedimento giudiziale sulla rinnovazione della notificazione comporta un rilevante allungamento dei tempi del giudizio, oltre che un rilevante appesantimento delle procedure (Cass. SS UU 17352-09).

Pertanto la conseguenza dell’inottemperanza a tale “onere” di riattivazione in tempi ragionevoli, comporta, anche ove la parte si sia tempestivamente attivata per la notifica originaria, la perdita della facoltà di ottenere dal giudice la rimessione in termini ai sensi dell’art. 153 cpc (v. Cass. 9114-12). A maggior ragione, lo stesso effetto consegue quando la parte, a monte, non abbia neanche provveduto a tempestiva, originaria notifica del ricorso, non mettendosi così in condizione di riattivare in tempi ragionevoli il procedimento notificatorio con esito positivo.

Il parametro per valutare la tempestività o meno dell’attivazione della parte in tal senso va rinvenuto nel termine di dieci giorni dalla pronuncia del decreto di fissazione di udienza di cui all’art. 415 comma 4° cpc. L’inosservanza di tale termine, infatti, pur non incidendo di per sé sola sulla validità della notifica dell’atto (sempre che resti garantito al convenuto il termine di comparizione di legge: Cass. 26039-05, Cass. 3121-79), tuttavia, in caso di esito negativo della notifica stessa, non consente, nella prospettiva delineata, di ottenere dal giudice il provvedimento di rinnovazione. Il termine, seppure ordinatorio, una volta maturato senza l’accoglimento di istanza di proroga proposta prima della scadenza, produce gli stessi effetti preclusivi derivanti dall’inosservanza dei termini perentori (v. Cass. 20604-08, Cass. 2756-01, Cass. 808-99, Cass. 1448-00, Cass. 2736-01, Cass. 808-99), nel senso di far perdere alla parte la facoltà di ottenere dal giudice l’ordine di rinnovazione della notifica.

L’interpretazione adottata è in linea con i principi della immediatezza e concentrazione del rito del lavoro e della ragionevole durata del processo e di economicità del giudizio, riconosciuti dall’art. 111 Cost., garanzia quest’ultima  che costituisce “parametro di costituzionalità” della normativa processuale in materia, per essere oggetto, oltre che di un interesse collettivo, di un diritto di tutte le parti, costituzionalmente tutelato non meno di quello di un giudizio equo ed imparziale (v. Corte Cost. 78-02), trova inoltre decisivo avallo in ragione degli interessi coinvolti, non disponibili dalle parti processuali ed in relazione ai quali sussiste un “ordine pubblico processuale”, fermo restando il solo diritto alla remissione in termini (ampliata ai sensi dell’art. 153 n.t. cpc), ove ne ricorrano i presupposti (v. Cass. SS  UU n. 8202-05); e infine in linea con il sistema processuale configurato dalla L. 533-73 e, in particolare, dagli artt. 415 e 417 cpc, e con l’obbligo di diligenza posto a carico del ricorrente, costituito tramite difesa tecnica, in relazione alla verifica in cancelleria, mediante l’esame del decreto di fissazione di udienza, del momento in cui esso sia stato firmato dal giudice, senza alcun obbligo di comunicazione da parte della Cancelleria stessa.

 Nel caso in esame la notifica originaria del ricorso è stata richiesta il 4-2-2014 a fronte di emissione del decreto in data 22.1.2014; dunque, non è stato rispettato il citato termine di dieci giorni. In maniera assorbente, una volta effettuata in data 21-2-2014 la notifica con esito negativo, la parte ha omesso per oltre 6 mesi di riattivarsi per la ripresa del procedimento notificatorio.

Né vale richiamare la giurisprudenza della Corte di Cassazione Sez. Lav. n. 1483-15 e SS UU n. 5700-14 sulla diversa fattispecie della omessa notifica, secondo la quale è ammessa la concessione di termine per effettuarla “ex novo”.

Secondo la giurisprudenza delle SSUU della Corte di Cassazione (sent. 20604-08), con riferimento al processo di appello ed a quello di opposizione a decreto ingiuntivo (e quindi ad un ordinario processo di primo grado a cognizione piena) ed in caso di omessa notificazione del ricorso introduttivo e del decreto di fissazione dell’ udienza, anche se la parte ricorrente si presenti alla prima udienza, la causa deve essere definita con una sentenza di mero rito, con declaratoria di improcedibilità della domanda, non potendo più detta causa proseguire per non essere consentita – in ragione del principio della ragionevole durata del processo (art.111 Cost.) – la fissazione di un nuovo termine per la notificazione, mai in precedenza effettuata, dell’atto e del provvedimento citati, attesa l’inapplicabilità in tale caso degli artt. 291 e 421 cpc (v. anche Cass.20613-13, Cass.9597-11, Cass.11992-10).

La pronuncia delle SS UU n. 5700-14, peraltro, è stata resa in procedimento instaurato ai sensi della L.89-01 (e quindi in materia di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo) e non in controversia ai sensi degli artt. 409 e 442 cpc (e quindi in materia di controversie individuali di lavoro e di assistenza e previdenza).

Infine l’ ampiezza del periodo di inattività, di entità superiore ai sei mesi e l’ assenza finanche di allegazione di alcun giustificato impedimento che consenta alla parte di essere rimessa in termini ai sensi dell’ art. 153 cpc costituiscono ulteriore argomento nel senso della perdita, per tale parte, della facoltà di ottenere dal giudice un termine per la rinnovazione della notifica.

Alla luce delle considerazioni esposte, l’omissione di valida notifica con esito positivo nel senso sopra delineato, in assenza della costituzione della controparte, produce l’improcedibilità della domanda proposta nei suoi confronti  (arg. da Cass. 28270-08).

La domanda proposta nei confronti di G.M. è infondata per le assorbenti considerazioni che seguono.

L’art. 2094 cc stabilisce che “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga, mediante retribuzione, a collaborare nell’impresa (o anche con il datore di lavoro non imprenditore: art. 2239 cc) prestando il proprio lavoro manuale od intellettuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’ imprenditore (o comunque del datore di lavoro)”.

Premesso che ogni attività umana, economicamente rilevante, può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato che di rapporto di lavoro autonomo, ai fini dell’affermazione della natura subordinata (anziché autonoma) del rapporto di lavoro, la quale non è presunta neppure iuris tantum, ma deve essere dimostrata dal soggetto che la deduce, è indispensabile verificare se sussista in concreto la subordinazione, e cioè un pregnante vincolo di natura personale consistente nell’assoggettamento dal lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale potere deve manifestarsi essenzialmente nell’emanazione di ordini specifici inerenti alle intrinseche modalità della prestazione lavorativa e non solo al risultato, oltre che nell’esercizio di un’assidua attività di vigilanza e controllo nell’esecuzione delle prestazioni lavorative, con conseguente limitazione dell’autonomia del lavoratore medesimo e suo stabile inserimento nell’organizzazione aziendale; tale vincolo deve essere apprezzato in concreto con riguardo alla specificità dell’incarico conferito al lavoratore e al modo della sua attuazione. Quando il requisito dell’assoggettamento alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile (per esempio perché l’attività dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione o, al contrario, abbia natura altamente intellettuale e professionale), è necessario fare riferimento, nell’ambito di una valutazione globale della vicenda, a criteri distintivi sussidiari, che, privi singolarmente di valore decisivo, possono essere valutati globalmente come indizi probatori della subordinazione: criteri da individuare nel luogo della prestazione, nell’osservanza di un orario di lavoro predeterminato. nella mancanza di qualsiasi rischio economico, nel versamento a cadenze fisse di una retribuzione, nella assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale. Nella sostanza, requisito fondamentale  del rapporto di  lavoro subordinato – ai fini della sua distinzione dal rapporto di lavoro autonomo – è il vincolo della subordinazione, che consiste per il lavoratore in una stato di assoggettamento gerarchico e per  il datore di lavoro nel potere di direzione con il consequenziale inserimento del lavoratore nella organizzazione aziendale; la  situazione  va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità  dell’incarico conferito al lavoratore e al modo della sua attuazione, fermo restando che caratteri dell’attività lavorativa come la continuità, la rispondenza dei suoi contenuti ai fini propri dell’impresa, le modalità di erogazione della retribuzione e la stessa durata dell’attività non assumono valore decisivo, essendo compatibili sia con il rapporto di lavoro subordinato che con quello di lavoro autonomo o parasubordinato (anch’esse di natura autonoma) (v. Cass.19568-13, Cass.135-09, Cass.9256-09, Cass.5645-39, Cass.4500-07, Cass.2842-04. Cass.849-04, Cass.19352-03, Cass.12926-99, Cass.8S78-99, Cass. SS UU n.379- 99. Cass.11185-98, Cass.6114-98, Cass.5464-98, Cass.3745-95).

La lavoratrice assume di avere prestato la propria attività di collaboratrice domestica nell’ abitazione di B.G., ma di essere stata assunta, diretta e retribuita anche dalla di lei figlia G. M.

Il rapporto di lavoro non è in alcun modo documentato, né, tantomeno, è documentata la qualità di datrice di lavoro in capo alla G.

Il teste L. G. ha dichiarato: “Sono il marito di G. M. ed il genero di B.G. La parte ricorrente ha lavorato a casa di mia suocera in Via P.. Se non sbaglio cominciò a lavorare intorno ad aprile del 2013. Ha lavorato fino alla fine di giugno dello stesso anno, a luglio è andata in ferie e tornata dalle ferie non ha più ripreso a lavorare. Fu mia suocera ad assumere la parte ricorrente. Al momento dell’assunzione c’eravamo anche lo e mia moglie. Mia suocera era una persona anziana e quindi volevamo vedere chi si mettesse in casa. Era mia suocera che pagava la parte ricorrente con un assegno. Era mia suocera che stava in casa e quindi era lei a dirle che cosa si dovesse pulire; quando c’eravamo anche noi guardavamo come la situazione avanti. Andavamo a trovare mia suocera almeno una volta a settimana. Di mattina io non sono mai andato a casa di mia suocera per cui non ho mai visto la parte ricorrente fare le pulizie. Siamo andati talvolta a cena e ho visto che dava le pillole a mia suocera. So che preparava i pasti, anche se non l’ho vista di persona fare ciò. Comunque la parte ricorrente era stata assunta per fare la badante, e quindi per fare le pulizie della casa ed assistere la persona di mia suocera. Mia suocera era abbastanza autonoma, si trattava più che altro di una compagnia. So che la parte ricorrente non lavorava il giovedì pomeriggio e la Domenica per l’intera giornata, non lavorava neanche nelle festività per  l’ intera giornata. Per il resto non saprei dire che orario di lavoro osservasse, atteso che La parte ricorrente  dormiva presso mia suocera. La retribuzione mensile era di € 1000. Non ricordo se mia suocera le abbia applicato la contrattazione collettiva di categoria. Mia suocera era abituata a vivere da sola, a un certo punto ha deciso di  recedere dal rapporto di lavoro in quanto non voleva più convivere con un’ altra persona. Ed infatti dal dicembre dello stesso anno mia suocera risiede in una casa di riposo. Faccio presente che in sede di assunzione noi illustriamo alla parte ricorrente le esigenze per le quali veniva assunta. Per il resto mia suocera era autonoma e abbastanza autoritaria. Pertanto il rapporto di lavoro è stato gestito da quest’ultima e dalla parte ricorrente mentre noi non abbiamo mai sostanzialmente interferito”.

La teste L.J.B. dichiara: “Sono un’amica della parte ricorrente. La conosco da circa 10 anni.

So che la parte ricorrente ha lavorato presso una persona anziana, non so quanti anni avesse. La casa di questa persona si trovava in zona Balduina. Io sono entrata una volta a casa di detta signora. Ciò è successo in quanto occorreva trovare una persona che sostituisse la parte ricorrente il giovedì e la domenica. lo ho accompagnato un’altra ragazza che doveva effettuare questa sostituzione. Per quanto ne so io detta ragazza è andata al lavoro una volta sola perché si è spaventata. Credo che lo spavento sia stato dovuto al fatto che la signora anziana beveva.

Questa è stata l’unica volta in cui sono entrata nella casa in cui ha lavorato la parte ricorrente. Credo che la parte ricorrenze ha cominciato a lavorare nell’aprile del 2013, era dopo Pasqua. E’ partita in vacanza nel mese di luglio, mi sembra che sia tornata a lavorare. Non saprei dire di preciso quando la parte ricorrente ha smesso di lavorare.

Il 1° maggio ricordo della parte ricorrente fu chiamata dal genero della signora anziana il quale le comunicò che quest’ultima era andata in ospedale. La parte ricorrente andò via. Eravamo a pranzo.

La parte ricorrente che io sappia lavorava tutti giorni, faceva qualcosa anche di domenica. Ci sentivamo spesso e ci raccontavamo le cose.

Non ricordo per quali ragioni la parte ricorrente ha smesso di lavorare presso la signora anziana. A parte l’occasione di cui ho parlato, io non ho mai sentito la figlia e il genero della signora anziana. So che abitavano in zona Balduina ed avevano una tabaccheria”.

Tale essendo il quadro istruttorio, non vi sono elementi per ritenere che sia intercorso un rapporto di lavoro subordinato con la G.

Non è risultato infatti che questa abbia proceduto all’assunzione né che la prestazione lavorativa sia stata svolta in suo favore né che ella abbia gestito la prestazione lavorativa esercitando un potere direttivo, organizzativo e disciplinare mediante l’emanazione di ordini specifici e l’esercizio di un’attività di vigilanza e controllo, Neanche è risultato che la stessa abbia mai provveduto alla corresponsione della retribuzione  né che abbia avuto un qualsiasi ruolo nella risoluzione del rapporto di lavoro.

Per contro è emerso che tali attività sono state svolte esclusivamente dalla B., senza sostanziale interferenza della figlia, e che la prestazione lavorativa è stata svolta in favore della prima e nella sua abitazione.

Anche la mancata presentazione della parte ricorrente di persona alla prima udienza per rendere l’interrogatorio libero va valutata, insieme ad altri elementi, ai fini della decisione (artt. 116 e 420 c.p.c.: v. anche Cass. 7739-07).

Alla luce delle considerazioni esposte la domanda in esame va rigettata.

Le spese processuali, liquidate a norma del DM n. 55-14 come in dispositivo anche in considerazione del valore della causa (studio controversia euro 800, fase introduttiva euro 400, fase istruttoria-trattazione euro 600, fase decisione 700), seguono la soccombenza. Atteso l’esito del giudizio e la mancata costituzione della B. non è luogo a provvedere sulle spese processuali tra questa e la parte ricorrente.

P.Q.M.

rigetta la domanda;

condanna la parte ricorrente a rimborsare a G.M. il compenso per avvocati, che liquida in euro 2.500, oltre oneri di legge, da distrarre in favore del procuratore antistatario avv. Vito Sola.

Roma, 19-5-2015

 

Il Giudice                                                                                                                                                                       Alessandro Nunziata

 

DEPOSITATO IN CANCELLERIA

ROMA 19 mag. 2015

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