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Lavoro a termine e risoluzione per mutuo consenso

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La Corte di Appello di Roma riafferma che, per configurarsi la risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo

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SENT. 3180/15

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE DI APPELLO DI ROMA

Sezione controversie di lavoro, previdenza e assistenza obbligatorie
La Corte composta dai signori magistrati:
DI PAOLANTONIO dott. Annalisa               Presidente relatore
CENTOFANTI dott. Francesco                      Consigliere
POSCIA dott. Giorgio                                       Consigliere

All’udienza del 10 aprile 2015 nella causa civile in grado di appello iscritta al n. 300 del Ruolo Generale degli affari contenziosi dell’anno 2013 vertente

tra

D. M. A. domiciliato in Roma alla Via Ugo De Carolis n. 31 presso lo studio dell’Avv. Vito Sola che lo rappresenta e difende giusta procura rilasciata a margine dell’appello
Appellante
e
Poste Italiane s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma alla Via Barberini n. 47 presso lo studio dell’Avv. Angelo Pandolfo che la rappresenta e difende giusta procura rilasciata a margine della memoria difensiva in grado di appello
Appellata
ha pronunziato la presente
SENTENZA
Oggetto: appello avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 15649 del 4 ottobre 2012
Conclusioni delle parti: come da atti introduttivi e da verbale di udienza

                                                                         Ragioni della decisione
Con la sentenza indicata in epigrafe il Tribunale di Roma ha respinto il ricorso proposto da A. D. M. il quale, nel convenire in giudizio la S.p.A. Poste Italiane, aveva chiesto che, previo accertamento della illegittimità del contratto stipulato il 18 febbraio 2003 con la I I. s.p.a. – società di fornitura di lavoro temporaneo, venisse dichiarata la sussistenza di un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con la società, con conseguente condanna di quest’ultima a ripristinare il rapporto ed a corrispondere, a titolo di risarcimento del danno, le retribuzioni maturate dalla data dell’offerta delle prestazioni lavorative e la indennità prevista nella misura massima.
Il Tribunale ha ritenuto fondata l’eccezione di risoluzione per mutuo consenso ed ha rilevato che, a fronte dell’unico contratto scaduto nel settembre 2004, il ricorrente aveva atteso più di cinque anni prima di costituire in mora il datore di lavoro con la richiesta di tentativo di conciliazione del 3 febbraio 2010. Ha richiamato giurisprudenza di legittimità, sottolineando che il comportamento delle parti, risolventesi nella totale mancanza di operatività del rapporto, deve essere valutato quale dichiarazione solutoria in presenza di principi di settore che non consentono di ritenere esistente un rapporto di lavoro in mancanza di esecuzione.
Avverso detta decisione ha proposto tempestivo appello la parte soccombente censurando la sentenza impugnata per “carente insufficiente/insussistente motivazione in tema di presunta sussistenza dello scioglimento del rapporto di lavoro per mutuo consenso”. Ha rilevato l’appellante che l’inerzia dell’interessato non è mai idonea ad esprimere una chiara e certa volontà di porre definitivamente fine al rapporto lavorativo, ove non sia accompagnata da ulteriori condotte che devono costituire oggetto delle allegazioni e della prova da parte di chi prospetti lo scioglimento del rapporto.
Poste Italiane, nel resistete al motivo di gravame, ha fatto propria la motivazione della sentenza impugnata, della quale ha chiesto la conferma e, in via subordinata, ha richiamato tutte le eccezioni e le difese sviluppate negli scritti di primo grado.
Così instauratosi il contraddittorio fra le parti, all’udienza odierna la causa è stata discussa e decisa con lettura del dispositivo.
L’appello è fondato.
Sebbene nella fattispecie si discuta non della validità della clausola di durata bensì della legittimità del contratto di fornitura di lavoro temporaneo, quanto alla eccepita risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è senz’altro applicabile il consolidato e condivisibile orientamento espresso dalla Corte di Cassazione la quale, in più pronunce, ha affermato che l’asserito disinteresse alla continuazione del rapporto non può essere desunto dalla sola inerzia del lavoratore, giacché una chiara volontà comune delle parti di porre fine ad ogni rapporto lavorativo, può essere desunta solo da elementi esterni che, complessivamente valutati, consentano con certezza di qualificare in tali termini l’inerzia protrattasi nel tempo (fra le più recenti Cass. 16982/2011; Cass. 5887/2011).
La Corte in recente decisione ha ribadito che “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 4-8-2011 n. 16932).
la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, “è di per se insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso” (v. da ultimo Cass. 15-11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-3011 n. 5887), mentre “grava sul datore di lavoro”, che eccepisce tale risoluzione, “l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass. 1-2-2010 n. 2279).
Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli artt. 1372 e 1321 c.c., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto (contra sulla rilevanza al mero dato oggettivo della “cessazione della funzionalità di fatto del rapporto”, valutato “in modo socialmente tipico” cfr. Cass. 23-7-2004 n. 13891 e Cass. 6-7-2007 n. 15264).” (Cass. 13227/2012).
La società appellata, nel costituirsi in giudizio, ha fatto leva solo sull’arco temporale intercorso fra la scadenza del contratto e l’impugnazione, sicché, per ciò solo, la eccezione doveva essere respinta.
A soli fini di completezza si osserva che non possono essere ritenuti dati sintomatici dell’asserita risoluzione consensuale, la breve durata del contratto, il notevole lasso di tempo intercorso fra la cessazione dell’ultimo rapporto e la offerta delle energie lavorative, la accettazione del TFR senza alcuna riserva o contestazione, la possibilità che la ricorrente abbia svolto attività lavorativa alle dipendenze di terzi.
Si tratta, all’evidenza, di circostanze non idonee a manifestare inequivocabilmente la volontà della parte di ritenere risolto il rapporto giacché, come è stato puntualmente osservato dalla Corte di legittimità, la valutazione della condotta va operata, non avendo presente la successiva declaratoria di conversione, trattandosi di effetto sanzionatorio voluto dalla legge e che interviene a prescindere da ogni indagine circa l’ipotetica volontà delle parti, ma con riferimento alla situazione anteriore e ciò perché “le parti, che hanno voluto un contratto a termine, non possono poi tenere se non comportamenti coerenti con la volontà dichiarata, presupponenti, cioè, nella “situazione fattuale”, intanto la esistenza, e, dopo la scadenza del termine, l’avvenuta estinzione per tale causa di quel contratto, non già la originaria e perdurante esistenza viceversa di un non voluto … contratto a tempo indeterminato” (così Cass. n. 824/1993 richiamata da Cass. 11.11.2009 n. 23872).
Muovendo da detta premessa la Corte di legittimità ha evidenziato “che non sono indicative di un intento risolutorio né l’accettazione del TFR né la mancata offerta della prestazione, trattandosi di “comportamenti entrambi non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dalla legittima apposizione del termine” (cfr., Cass., n. 15628/2001, in motivazione e, più di recente Cass. n. 7826/2013).

Infine è stato affermato che “ai fini della risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso dopo la scadenza del termine illegittimamente apposto, non rileva il semplice reperimento di altra occupazione, che, rispondendo ad esigenze di sostentamento quotidiano, non indica la volontà del lavoratore di rinunciare ai propri diritti verso il ,precedente datore di lavoro”, (Cass. 2310/2014 e negli stessi termini Cass. 11796/2012).

L’appellante ha riproposto le domande e le eccezioni non esaminate dal Tribunale, rinviando al ricorso di primo grado ove era stata dedotta la assoluta genericità della causale.

La censura è fondata. Occorre premettere che A.D.M. ha sottoscritto contratto per prestazioni di lavoro temporaneo ai sensi della legge 24 giugno 1997 n. 196 e la società di fornitura ha indicato i motivi del ricorso alla prestazione di lavoro temporaneo limitandosi a richiamare  i “casi previsti dal C.C.N.L.” (doc. 1 delle produzioni 1° grado parte ricorrente).

La medesima causale risulta richiamata nel contratto stipulato da Poste Italiane S.p.A. con la I.I. s.p.a. in data 17 febbraio 2003 (doc. 1 delle produzioni di primo grado parte resistente); contratto nel quale le parti si danno atto della richiesta avanzata dalla impresa utilizzatrice di “100 lavoratori a tempo pieno con mansioni di addetti allo smistamento in relazione a quanto previsto dall’art. 1, comma 2 lettera a) casi previsti dal C.C.N.L.”.

Chiamata a pronunciare in fattispecie analoga la Corte di legittimità , in recente decisione, ha osservato che “in tema di lavoro interinale, l’art. 1, secondo comma, della legge n. 196 del 1997 consente il contratto di fornitura di lavoro temporaneo solo per le esigenze di carattere temporaneo rientranti nelle categorie specificate dalla norma; esigenze che il contratto di fornitura non può quindi omettere di indicare, né può indicare in  maniera generica e non esplicativa, limitandosi a riprodurre il contenuto della previsione normativa; ne consegue che, ove la clausola sia indicata in termini generici, inidonei ad essere ricondotti ad una delle causali previste dal legislatore, il contratto è illegittimo; e, in applicazione del disposto di cui all’art. 10 della legge n. 196, il rapporto si considera a tutti gli effetti instaurato con l’utilizzatore interponente” (Cass.  17 gennaio 2013 n. 1148 e negli stessi termini Cass. n. 13960/2011 e Cass. 14714/2011). La motivazione delle sentenze citate, da intendersi qui richiamata ex art. 118 disp. att. c.p.c., fornisce risposta a tutti gli argomenti sviluppati nella memoria difensiva di primo grado, che la società ha richiamato anche in questo grado.

Per ciò solo, quindi, la domanda proposta da A.D.M. con il ricorso del 1 marzo 2012 deve trovare accoglimento, attesa la evidente genericità della causale inserita nei due contratti, che non precisano a quale ipotesi prevista dalle parti collettive si sia fatto riferimento per giustificare il contratto di fornitura di lavoro temporaneo.

Quanto alle conseguenze di natura risarcitoria, il Collegio deve prendere atto della recente pronuncia della Corte di legittimità che “in sede nomofilattica” ha affermato che “l’indennità prevista dall’art. 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, nel significato chiarito dal comma 13 dell’art. 1 della legge 28 giugno 2012 n. 92, trova applicazione con riferimento a qualsiasi ipotesi di ricostruzione del rapporto di lavoro avente in origine termine illegittimo e si applica anche nel caso di condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore a causa dell’illegittimità di un contratto per prestazioni di lavoro temporaneo a tempo determinato, ai sensi della lett. a) del primo comma, dell’art. 3 della legge 24 giugno 1997, n. 196, convertito in contratto a tempo indeterminato tra lavoratore e utilizzatore della prestazione.”  (Cass. 1148/2013). La Corte ha ampiamente argomentato sulle ragioni di detta scelta esegetica, ritenendo che la ratio dell’intervento legislativo nonché il tenore della disposizione di interpretazione autentica, debbano indurre a far superare il dato letterale della norma in commento.

Ciò premesso si deve escludere che la indennità prevista dall’art- 32 della legge 183/2010 possa essere liquidata in aggiunta al risarcimento del danno. E’ noto che la Corte di legittimità, con la ordinanza n. 2112/2011, ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della disciplina con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 111 e 117 Cost.. Nella ordinanza, la Corte, richiamato il precedente quadro normativo e l’orientamento giurisprudenziale consolidato secondo cui il lavoratore estromesso dall’azienda a seguito dello spirare del termine illegittimo aveva diritto ad essere risarcito del danno pari alle retribuzioni maturate sino alla riammissione a condizione che avesse offerto al datore di lavoro le proprie energie lavorative, ha evidenziato che le ragioni dell’intervento normativo ed il tenore letterale della nuova disciplina inducono a ritenere non fondata “la tesi, proposta da una parte della dottrina, secondo cui l’indennità in questione non escluderebbe il (ma  anzi dovrebbe aggiungersi al) risarcimento del danno, sopportato dal datore di lavoro e da liquidare secondo le sopra dette regole di diritto comune. Anche l’espressione “onnicomprensiva”, adoperata dal Legislatore, acquista significato solo escludendo qualsiasi altro credito del lavoratore, indennitario o risarcitorio”.  Detta esegesi è stata condivisa dalla Corte Costituzionale che con la sentenza 303/2011 ha escluso i profili di illegittimità denunciati dalla Corte di Cassazione e dal Tribunale di Trani, anche con specifico riferimento alla disposizione transitoria, ed ha evidenziato che “la normativa impugnata risulta, nell’insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi. Al lavoratore garantisce la conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, unitamente ad un’indennità che gli è dovuta sempre e comunque, senza necessità né dell’offerta della prestazione, né di oneri probatori di sorta. Al datore di lavoro, per altro verso, assicura la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla data d’interruzione del rapporto fino a quella dell’accertamento giudiziale del diritto del lavoratore al riconoscimento della durata indeterminata di esso. Ma non oltre, pena la vanificazione della statuizione giudiziale impositiva di un rapporto di lavoro sine die”.  Questo Collegio già in precedenti pronunce aveva ritenuto di dovere condividere la lettura offerta dalla Corte regolatrice e dal Giudice delle leggi, in quanto rispondente al canone interpretativo fissato dall’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, che impone all’interprete di attenersi innanzitutto al tenore letterale della disposizione (ed a tal fine assume particolare rilievo la definizione dell’indennità quale onnicomprensiva) e di considerare altresì le ragioni dell’intervento normativo e le finalità che attraverso lo stesso il legislatore ha inteso perseguire.

A fugare ogni dubbio è intervenuto l’art. 1 comma 13 della legge 28.6.2012 n. 92 secondo cui “la disposizione di cui al comma 5 dell’art. 32 della legge 4 novembre 2010 n. 183 si interpreta nel senco l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provveidmento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro”. Non vale, poi, invocare la direttiva europea sul lavoro a tempo determinato ed in particolare la clausola 8 dell’accordo quadro. La questione è stata affrontata dalla Corte Costituzionale con la recente sentenza n. 226/2014 nella quale la Corte ha evidenziato che “la clausola 8.3 dell’accordo quadro, nell’interpretazione fornita dal giudice europeo, non preclude in via generale modifiche che possano essere ritenute peggiorative del trattamento dei lavoratori a tempo determinato allorché attraverso di esse il legislatore nazionale persegua obiettivi diversi dalla attuazione dell’accordo quadro. Così ricostruito l’ambito di applicazione della clausola di non regresso, ritiene questa Corte che le disposizioni censurate esulino da tale ambito non essendo collegate alla attuazione dell’accordo quadro, ma perseguendo scopi distinti. Nella sentenza n. 303 del 2011 questa Corte ha individuato la ratio dell’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 nella volontà di <> a fornte delle <. In essa è stato, inoltre, chiarito che l’art. 32, comma 5, citato <>, ma va ad integrare la garanzia della conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato che costituisce la < >. La scelta di prevdere un’indennità forfettaria proporzionata risponde all’esigenza di <>. La finalità perseguita con l’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, dunque, non era quella di recepire ed attuare l’accordo quadro in materia di contratto a tempo determinato, bensì quella di assicurare la certezza dei rapporti giuridici, imponendo un meccanismo semplificato e di più rapida definizione di liquidazione del danno (evitando accertamenti probatori in ordine alla mora accipiendi, all’aliunde perceptum, al percipiendum, ecc.) a fronte della illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro.
Analogo obiettivo è alla base della norma di interpretazione autentica contenuta nell’art. 1, comma 13, della legge n. 92 del 2012. Tale disposizione, emanata all’indomani della sentenza n. 303 del 2011, sostanzialmente recepisce l’interpretazione costituzionalmente orientata dall’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 che quella pronuncia conteneva. Questa Corte ha infatti affermato che il danno forfettizzato dall’indennità in esame <>. A fronte delle divergenze interpretative che pur dopo tale pronuncia erano emerse nella giurisprudenza di merito, il legislatore è intervenuto accogliendo e rendendo vincolante l’interpretazione data da questa Corte all’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, allo scopo di <> (così la relazione al disegno di legge 3249 presentato al Senato il 5 aprile 2012).
Questi elementi consentono di ravvisare l’obiettivo perseguito dal legislatore, ancora una volta, nella esigenza di assicurare certezza nella quantificazione del risarcimento del danno spettante al lavoratore in caso di illegittima apposizione del termine al contratto, rendendo cogente la soluzione, già prevista, che bilanciava le opposte pretese del lavoratore e del datore di lavoro, nonchè nello scoraggiare ulteriore contenzioso. Se, dunque, l’intento perseguito da entrambe le disposizioni è quello di stabilire un criterio uniforme e certo per la quantificazione del danno allo scopo di semplificare il contenzioso, allora ne consegue che esse si collocano fuori dall’ambito di applicazione della clausola 8.3 dell’accordo quadro e che pertanto non sussite alcuna violazione di detta clausola e, conseguentemente, degli evocati parametri costituzionali.”
Tenuto conto della durata dell’unico rapporto intercorso fra le parti dal 18 febbraio 2003 al 30 settembre 2004, delle dimensioni della società resistente, del tempo trascorso fra la cessazione di fatto del rapporto e l’offerta della prestazione lavorativa, l’indennità va quantificata in misura pari a 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto oltre alla rivalutazione monetaria ed agli interessi dalla data della presente decisione.
Ha osservato, infatti, la Corte di legittimità che “l’indennità in esame rappresenta infatti il ristoro (seppure “forfettizato” e “omnicomprensivo”) dei danni conseguenti alla nullità del termine apposto al contratto di lavoro, relativamente al pericolo che va dalla scadenza del termine alla data della sentenza di conversione del rapporto. Dalla natura, poi, di liquidazione “forfettaria” e “omnicomprensiva” del danno relativo al detto periodo consegue altresì che gli accessori ex art. 429, terzo comma, c.p.c. sono dovuti soltanto a decorrere dalla data della detta sentenza, che, appunto, delimita temporalmente la liquidazione stessa.”
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e vanno poste a carico della società appellata nella misura indicata in dispositivo, liquidata secondo i criteri indicati nel d.m. 20 luglio 2012 n. 140 e 10 marzo 2014 n. 55.

                                                                                          P.Q.M.
In accoglimento dell’appello ed in riforma della sentenza impugnata dichiara costituito fra le parti rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con decorrenza dal 18 febbraio 2003 tuttora in atti.
Condanna per l’effetto Poste Italiane s.p.a. a riammettere in servizio l’appellante nel posto di lavoro in precedenza occupato ed a corrispondere allo stesso la indennità risarcitoria ex art. 32 della legge n. 183/2010 nella misura du 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla data della presente decisione.
Condanna la società appellata al pagamento delle spese del giudizio, liquidate, quanto al giudizio di primo grado, in € 2.750,00, e quanto all’appello in € 3.500,00, oltre rimborso spese generali del 15%, iva e Cap nella misura di legge, da distrarsi in favore del procuratore antistatario.
Il Presidente estensore

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